Esordio di Johnny Cash per la American di Rick Rubin, questo disco rappresenta il primo dei sei capitoli appartenenti alla fortunata serie che ha sancito la sua rinascita artistica ma al tempo stesso il suo lascito (gli ultimi tre lavori sono usciti postumi).
Agli inizi dei Novanta il nostro sembra essere considerato preistoria, pare non avere buoni rapporti con la Mercury.
Nel 1993 Rubin, alla ricerca di nuovi stimoli discografici, contatta Cash e gli da carta bianca: l’artista, armato della sua sola chitarra, nel giro di pochi mesi registra una numero ragguardevole di canzoni: per lo più interpreta vecchi brani di altri artisti, non disdice la rilettura di proprie canzoni, ma alla fine incide anche numerosi inediti.
Il disco in questione è intimo, raccolto, intriso di malinconia e pessimismo, la tematica della morte (“Delia's Gone”) e della resurrezione (“Redemption”) aleggia nei solchi in maniera per nulla celata.
Sorprendente sul primo Leonard Cohen (“Bird on the Wire”), all’altezza sui doni offerti da Tom Waits e Glenn Danzig, i quali gli regalano un pezzo cadauno ma poi se li riprendono (“Down There by the Train”, “13”), struggente in “The Beast in Me” di Nick Low, rassicurante in “Why Me Lord” di Kris Kristofferson.
La voce è sempre quella, forse un po’ invecchiata ma ancora intatta. E’ un Cash che finalmente ha ritrovato la sua dimensione, e si sente. Non a caso l’accoglienza di pubblico e critica è trionfante, anche tra le nuove generazioni.
Viene colto dal vivo in “Tennesse Stud” ma soprattutto nella (forse) più importante pagina di questo capitolo: la caduta, la resistenza, il pianto, la rinascita. Rinascita.
“Well, he went up to heaven, located his dog,
Not only that, but he rejoined his arm
Down below, all the critics, they loot it all back,
Cancer robbed the whore of her charm”
The Man Who Couldn't Cry.
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