Siete ancora sessualmente attivi ed una mattina vi svegliate con una impellente voglia di Johnny Cash, ma non avete la minima idea di dove diavolo andare a parare?
La domanda, in effetti, non è da poco: come orientarsi innanzi ad un artista (classe '32) attivo dagli inizi degli anni '50, fecondo fino a pochi anni fa, e con alle spalle una discografia praticamente infinita?
Diffidate dei Best of, che non rendono giustizia ad alcuno, e tantomeno a chi ha sul groppone 50 anni di carriera. Seguite piuttosto il mio consiglio, e gettatevi a capofitto negli album usciti per l'American Recordings di Rick Rubin. Cinque imperdibili gioielli che ci aprono una finestrella sull'immenso mondo di questo artista immenso. Non ritenendomi un magno conoscitore di Cash potrei sbagliarmi alla grande, ad ogni modo, quello che posso dirvi è che questi album costituiscono un'opportunità da non perdere soprattutto per chi, come me, non ha proprio il pallino per il country.
Del resto, il rigetto per un genere come il country non è certamente un motivo sufficiente per negarsi un artista imprescindibile come Johnny Cash. Ed è quello che sembra aver capito anche Rick Rubin, vecchia volpe del music business, che con il ciclo American riesce ad ergere un ponte fra il cantautore americano e le nuove generazioni, avvezze a ben altre sonorità. E se da un lato vedere un dinosauro come Cash reinterpretare i vari Nine Inch Nails, Depeche Mode e U2 fa una certa impressione (e può legittimamente dare adito a qualche dubbio sugli intenti commerciali dell'operazione), dall'altro vi posso assicurare che ce ne possiamo allegramente sbattere di eventuali e presunti complotti alle spese dei nostri portafogli, dato che Cash azzittisce tutte le malelingue con il peso schiacciante del suo talento.
Che si tratti di rock, di pop o di elettronica, il tutto viene filtrato attraverso la voce, la chitarra e l'immenso carisma del cantautore americano, che è capace di fagocitare le sonorità più disparate e trasformarle in qualcosa di proprio. Ragazzi, questi cinque album sono album di Johnny Cash, non ci sono cazzi. Comprateli perché sono uno meglio dell'altro. Dall'intimo "American Recordings", al poliedrico "Unchained", passando per i fenomenali "Solitary Man" e "The Man Comes Around", fino al recente "A Hundred Highways", uscito dopo la morte di Cash, si percorrono gli ultimi dieci anni di vita del cantautore americano: la morte dell'amata moglie, la lotta con la malattia, il rapporto sempre più intimo con Dio e i travagli spirituali di un uomo che, da solo, si avvia mestamente verso la morte. Dico "da solo" perché innanzi alla morte si è sempre soli, è un passo, questo, che si affronta in solitudine. Solitudine che, almeno apparentemente, non ha certo caratterizzato gli ultimi anni di vita del cantante, contornato dal calore e dall'affetto della famiglia e dei numerosi amici. Eppure ho sempre scorto un senso di solitudine nella musica di Cash, ed in particolare in questi ultimi lavori. Un'epica della solitudine che con gli anni ha finito per perdere i toni virili della gioventù e si è trasformata progressivamente in una condizione di accettazione del proprio Destino, a volte serena, altre pregna del fatalismo tipico di chi si approssima alla Fine e del dolore che comunque la vita sa riservare fino in fondo.
Il country di Cash diviene un'avventura mistica, non si riferisce più alle epiche traversate dei cowboy ai tempi della Conquista, ma diviene migrazione di un Uomo dalla Vita alla Morte (o, come direbbe Cash stesso, un viaggio verso le braccia accoglienti di un Dio misericordioso), assumendo toni anche sacrali (basti ascoltare il rifacimento di "Mercy Seat" di Nick Cave contenuta in "Solitary Man" per capire quello che sto dicendo). Questi cinque lavori sono come un album di fotografie, un diario che testimonia un percorso spirituale, in cui il viandante, che ben conosce la sua destinazione ultima, si spoglia mano a mano dei bagagli superflui, degli orpelli terreni, puntando all'essenza delle cose, ma senza perdere la propria umanità, i dubbi e le debolezze che la caratterizzano.
"Unchained", uscito nel 1996, è ancora un album pieno di vita, devo dire. Dei cinque è senz'altro quello più vivace. Qui Cash non è solo con la sua chitarra, ma si fa accompagnare dall'amico Tom Petty e i suoi Heartbreakers. E di riflesso il sound si fa meno minimale e più composito che in passato. Le composizioni vengone a rilucere di raffinati arrangiamenti, e il fatto che ci sia una vera band alle spalle di Cash rende il tutto maggiormente rock-oriented (e del resto non saremo certo noi a gridare al tradimento se qua è là farà capolino una chitarra elettrica). Le canzoni sono varie e spaziano, in lungo ed in largo, toccando un po' tutte le sonorità che Cash ha saputo abbracciare nel corso della sua lunghissima carriera. C'imbatteremo così in brani inesorabilmente country, come l'opener "Rowboat" (di Beck) con tanto di slide guitar e frustine, o pezzi come "Sea of Heartbreak" e "The One Rose". Assisteremo a rigurgiti di vecchio e sano rock'n'roll gigione, come "Country Boy", "Mean Eyed Cat" e "I've Been Everywhere", massicce cavalcate anni cinquanta che faranno battere il piedino anche al più pigro ed indolente degli ascoltatori. Ma soprattutto verremo deliziati da splendide ballad, nelle quali, devo dire, Cash dà il meglio di sé. Pezzi che, a mio parere, da soli valgono l'acquisto dell'album. E mi riferisco all'immensa "Spiritual" (in cui la parola Jesus ricorre tante volte come Satan è sbraitato in un disco dei Deicide): una commovente preghiera che brilla di una interpretazione stellare, un crescendo emotivo da brividi che mette definitivamente in chiaro, per chi avesse ancora qualche dubbio, l'immensa caratura artistica di Johnny Cash. C'è poi l'incredibile interpretazione di "Southern Accents" dello stesso Petty, e la titletrack, con tanto di archi in sottonfodo, che ci riporta al Cash più teso e decadente. Un plauso particolare va infine a "Rusty Cage" dei Soundgarden, e al suo intermezzo rockettone, in cui la batteria fa finalmente il suo dovere e la voce di Cash si erge titanica su tutto, dipingendo grintosi scenari di perdizione. Meravigliosa.
Quello che è comunque davvero importante da sottolineare è la magia della fantastica voce di Cash che riesce far brillare anche i momenti più melensi e retrò, quegli episodi che alla fine risultano più ostici e certamente meno appetibili per chi, come dicevo in apertura, non apprezza certe sonorità. Del resto, Johnny Cash renderebbe interessante anche un pezzo di Orietta Berti.
"Unchained" non ha l'intima profondità di "American Recordings", né si ammanta di quel fatalismo che caratterizzerà i lavori successivi, sempre più minimali e scarni. "Unchained" ha tuttavia il pregio di consegnarci per l'ultima volta un Cash gioioso e vitale. "Unchained", in virtù della sua poliedricità, è in definitiva un buon punto di partenza per accedere al mondo di questo artista, spesso snobbato ingiustamente perché eticchettato riduttivamente come semplice musicista country. Questa, gente, non è country, questa è ottima musica, e privarsene diventa un peccato veniale per chiunque viva la musica a 360°. Del resto, è inutile che vi esorti ancora: come una droga questi album si impadroniranno inesorabilmente di voi e sono sicuro che li farete vostri in men che non si dica. Anzi, so già che in molti l'avete già fatto!
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