Era una leggenda vivente... d'ora in poi purtroppo rimane solo la leggenda: il chitarrista texano Johnny Winter se n'è andato in un altro mondo qualche giorno fa, e lo ha fatto proprio a un passo dall'Italia, in Svizzera dove si trovava a far tappa per l'ennesima tournée europea della sua cinquantennale, instancabile carriera.
L'amore per il blues, per la chitarra e per il palco l'ha tenuto in attività fino all'ultimo giorno di vita, malgrado che fosse decisamente malconcio in quanto a salute da diverso tempo: l'anomalia genetica dell'albinismo e poi una vita passata in compagnia di eroina e metadone portano alla conclusione che sia stato già un miracolo per lui arrivare a toccare i settant'anni. Era ormai costretto da tempo a suonare da seduto, le sue dita correvano ancora con maestria lungo la tastiera ma senza più l'intensità e la forza di una volta, ma soprattutto non si poteva più ammirare da diverso tempo la sua voce rabbiosa, da vera iena, incredibile per un tizio alto un soldo di cacio e sui cinquanta chili o poco più.
Ad onore e gloria di questo musicista eccezionale, coerente modesto e idealista, tiro fuori dal mazzo dei suoi album ufficiali dal vivo una pubblicazione del 1976 che lo vede ripreso col suo gruppo durante una tournée in California, alle prese con una mezza dozzina di infuocati numeri di rock blues generoso e torrenziale. Sono sei brani per una quarantina di minuti di durata, nella maggioranza reinterpretazioni alla sua maniera di canzoni altrui (Bob Dylan, John Lennon, Bobby Womack, Larry Williams e il cognato Rick Derringer, grandissimo chitarrista pure lui), quasi tutti rock'n'roll a parte il brano di Dylan. Non è che conti particolarmente disquisire fra un numero ed un altro: sono tutti canovacci, bei riffettoni e giri armonici su cui Winter si avventa con il suo stile rabbioso ed irruento ma incredibilmente cesellato e ricco.
E si, il modo di suonare di Winter era sommamente fluido e trafficato: non era un melodista, non faceva "cantare" il suo strumento tracciando percorsi melodici. Gli assoli erano in pratica un sontuoso concentrato di licks, di fraseggi standard del blues e del rock'n'roll da lui assimilati a centinaia, sciorinati in continua successione in una maniera così sciolta, naturale e appassionata che il nostro era in grado di sostenere minuti e minuti di assolo rimanendo sempre ficcante e trascinante.
La formazione che suona in quest'album è strutturata a quartetto: Winter nei primi anni preferiva dialogare con un altro chitarrista solista, soluzione che poi accantonerà proseguendo tutto il resto di carriera in trio chitarra/basso /batteria. Suo alter-ego nell'occasione è tale Floyd Radford, musicista preparato ma ovviamente ben lontano dal carisma e dalla classe dell'albino di Beaumont; niente a che vedere col già citato Rick Derringer che l'aveva preceduto, lui si chitarrista di classe e degno di una carriera anche migliore di quella, più che discreta, occorsagli una volta messosi in proprio.
La compilazione di brani dal vivo in questione comincia con la celebre "Bony Moronie" di Williams e si conclude con il torrenziale rock'n'roll " Sweet Papa John", l'unico contributo proveniente dalla penna dello stesso Winter, passando per la "Roll With Me" dell'ex collaboratore Derringer, per la Lennoniana "Rock'n'Roll People" pubblicata dall'ex-Beatle un paio d'anni prima, per la ben nota "It's All Over Now" di Womack e infine per la Dylaniana "Highway 61 Revisited", decisamente stravolta a colpi di chitarra slide.
Era il bluesman più bianco che ci fosse, ma anche uno dei più vicini all'anima dei neri, quella indispensabile per fare del vero blues, una musica che diventa semplice solo quando vi si "entra" colla propria anima prima che con le proprie capacità musicali. Tante grazie per la tua musica e riposa in pace Johnny, noi qui continuiamo ad ascoltarti.
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