La musica deve parlare per sé, il resto non conta. L'artista deve essere riconosciuto per le sue qualità creative, emozionali e tutto il resto deve passare in secondo piano. Ma trovarsi (in senso figurato) di fronte ad un bifolco albino, al limite dell'anoressia e dallo sguardo obliquo può suscitare un'innata curiosità. Johnny Winter, il redneck in questione, ha rappresentato per diversi decenni un punto fermo del blues rock statunitense, dai fasti a cavallo dei '60-'70 fino all'onestà dei recenti lavori. Oggi, ultrasessantenne e con più di un piede nell'ospizio, continua a proporre con passione un classicissimo blues, ripescato direttamente "dalle radici".

Questo "Roots" (2011) è una raccolta di classici reinterpretati dal texano con la collaborazione di amici/colleghi/parenti, e in una manciata di pezzi ricorda come una chitarra stridente, una voce sfiatata e le classiche dodici battute possano scuotere l'anima. Da ricordare soprattutto l'opener "T-Bone Shuffle", la versione di "Got My Mojo Workin'" di Muddy Waters (da sempre mèntore di Winter) e la partecipazione del fratello Edgar al sassofono. Produzione limpida, atmosfera svaccata.

Il rocker dei live ad alto volume è morto (troppi anni di eccessi ne hanno minato il fisico già fragile), ed è risorto in vesti classiche. Speriamo che ci regali ancora molti anni di piacevolissima nostalgia.

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