Forse che nel loro disco d’esordio, "D’istanti", gli Jolaurlo abbiano prestato un po’ troppa attenzione alla politica e troppa poca alla musica? Non che i ragazzi suonino male, ma musicalmente gli elementi originali e realmente interessanti sono pochi (prendiamo come emblema alcune venature ska-punk decisamente fuori luogo) e la struttura della maggior parte delle canzoni è di una ripetitività disarmante (strofa - ponte - rit. - strofa - ponte - rit. - a solo/intermezzo - rit. ). La voce della frontwoman, M. Stano, risulta monotona, standardizzata e stanca in fretta, se non per alcune eccezioni, come “Distante”, che ricorda molto gli echi elettronici e crepuscolari dei Subsonica, senza dubbio la traccia migliore del disco, e “Disconnection” (e qui ci interroghiamo sul profondo significato del verso “I want sucker… I want fucker… ”), un inno da centro sociale alla 99 Posse, ma senza il talento di Meg o il flow di Zulù.
I pezzi più disimpegnati (“Lasciami”, “Ansiolitic”, “Naif” sono anche i più insignificanti e scivolano via senza farsi notare, mentre “Teatro di burattini” ha la solita pretesa di dipingere il Cav. Silvio B. come il Male Assoluto e suona eccessivamente di parte.

Il disco si chiude con una ghost track, che non è altro che una variazione sul tema di “Distante”, e da qui si potrebbe riflettere sulla scarsa verve compositiva della band, che si rispecchia sulle nove tracce scarse dell’album, per la serie “poche ma NON buone”.
In definitiva gli Jolaurlo sembrano la conferma che nel rock il messaggio politico farebbe meglio a rimanere a livello subliminale o metaforico. Poi, l’impegno espresso nelle azioni è un altro paio di maniche.

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