Ho dormito male, e stamane la schiena – storta di suo e provata dall’orrida aula F.1.1 – mi doleva. La settimana è stata pesante, e lo stesso concetto sembra materializzarsi nel borsone blu e nella borsa del portatile – che non ne vuole sapere di stare chiusa – che mi dilaniano dal mattino la spalla sinistra.
La sciura col trolley, appena scesa dal metrò alla fermata della Centrale, si guarda intorno smarrita e vaga per la banchina: la sua valigia la segue senza controllo un metro più indietro, tranciando gambe e traballando ad ogni piastrella. Impreco perché non sopporto i trolley.
Il Cisalpino delle diciassette e trentotto non è lui: invece dei suoi comodi sedili, dei suoi odiosi tasti che ad ogni tuo movimento provocano i ronzii della tendina e delle stomachevoli oscillazioni sulle sbilenche ferrovie del lago mi tocca un pallido intercity. Raggiungo a fatica – oggi sono proprio stanco – la porta del sesto vagone e salgo.
Merda, gli scomparti.
Una volta adoravo i treni a scomparti, ma allora ero piccolo, forse più entusiasta; oggi, semplicemente, li detesto. Anche perché non amo parlare con estranei, sempre che non siano belle ragazze, e le belle ragazze estranee peraltro spesso non hanno voglia di parlare con me.
Di fronte a me si siede una ragazzona un po’ oltre il peso forma che non dirà niente per tutto il viaggio se non un timido “arrivederci” prima di scendere. Al suo fianco un’attempata coppia veneta è alle prese con le moderne tecnologie e con un’amabile discussione sui chackra. Un tizio di fronte a loro fa solo presenza; forse dorme.
Io accantono presto il “24 minuti” e mi trovo, ancora sudato per il caldo patito, a scorrere gli album del mio iPod giallo. Non so perché, ho voglia di ascoltare la voce di Jon Anderson.
“Olias of Sunhillow”, data astrale millenovecentosettantasei.
Le rarefatte metriche musicali ed i vocalizzi da cherubino dell’artista britannico incasellati nei suoi tenui arrangiamenti turchesi si fondono nel rassicurante e monotono procedere metallico del treno che non riesce tuttavia ad essere sovrastato.
L’oceano si espande intorno a me con la sua dinamica sensualità, caldo ed avvolgente nella sua glacialità. Dei galeoni lo solcano al suono di delicate percussioni e di tastiere eteree verso arpeggiano limpidi come il cielo.
QoQuaQ riunisce il popolo di Sunhillow per il suo esodo.
Ampi deserti di luce irrorati da gocce di pioggia come vibrazioni di sistro; ed ancora il pulsare di un basso quieto ad ancorare a terra la voce cristallina di Anderson, fragile come un cristallo di Boemia.
Apro gli occhi; il treno è ora fermo.
Il giardino di Geda rimane solo suono, mentre le ombre delle edere rosse si allungano sui muri della stazione di Chiasso. La coppia, telefonini in mano, discute animatamente – più lui che la distratta amica, in realtà – delle tariffe che si troveranno a pagare con l’operatore rossocrociato il cui nome compare ora gioioso sul loro display e che ancora – buon per loro – riescono a leggere.
Moon Ra.
Delicati accordi ti rivelano che il volo del Moorglade Mover di Olias è forse terminato ed ora nello spazio solido non rimangono che una voce ed i suoi riflessi, echi nel frinire di piccoli campanelli di solenne maestosità.
In fondo è un altro venerdì.
Guardo il mio lago, e ancora la voce alta dell’inglese descrive senza rendersene conto i mille riflessi blu opaco delle sue acque che tanto mi mancano nel grigiore umido di Milano.
Mi metterei quasi a ballare, leggero e soave come il canto di Jon Anderson, una timida danza di Ryanart; in fondo al corridore non ho nulla da dire, che continui pure la sua ricerca con l’animo in pace.
A me basta poco per essere felice.
Ho voglia di arrivare presto a casa.
Ho voglia di riabbracciare i miei.
Ho voglia di vedere il sorriso della ragazza di cui mi sto innamorando.
Carico i commenti... con calma