Nonostante “Lords of Chaos” si riveli essere, in definitiva, un prodotto filmico assai mediocre, la sua visione ha risvegliato in me sensazioni contrastanti, conducendomi a riflessioni su fatti, personaggi e temi che pensavo relegati oramai nello scrigno dell’indifferenza. Voglio oggi parlarvi a cuore aperto, e se è vero che gli spoiler saranno molti, altrettanto vero è che il tutto sarà per voi ben poco intellegibile se non avrete visto il film o se perlomeno non conoscete i Mayhem e le vicende ad essi collegate.

Partiamo dal presupposto che c’è un problema di fondo in questa operazione: “Lords of Chaos” è un’opera ambigua. Da un lato sceglie un tema innegabilmente di nicchia, “svelando al mondo” una storia nota solo ad una ristretta frangia di appassionati. Lo fa, dall’altro, strizzando l’occhio al grande pubblico, nella speranza che un fatto realmente accaduto possa attirare più di un curioso. Forse la produzione ne era consapevole e ha provato a giocare per addizione, ma il risultato è stato di scontentare entrambi i fronti.

Lo spettatore medio, da un lato, troverà davvero poco interessante questa storia, non conoscendo la musica delle band coinvolte, non potendo cogliere tutti i riferimenti ben noti al pubblico metal. I metallari, dal canto loro, si divideranno in due fazioni: quelli che schifano il black metal norvegese e che, o ignoreranno la pellicola, o la disprezzeranno ferocemente trovando in essa le conferme che cercavano, ossia che l’Inner Circle era una manica di ragazzi deviati e sostanzialmente privi di talento. E quelli che invece il black metal lo adorano e che, di contro, si sentiranno traditi dalle storture e dalle forzature nella rappresentazione degli eventi, dalla superficialità con cui sono stati tratteggiati i personaggi, dalla scarsa rilevanza data alla musica. Con l’affronto, per giunta, di qualche tono da dark-commedy francamente fuori luogo (compresa la trovata infelice della voce fuori campo di Euronymous che, in modo fin troppo ammiccante e confidenziale, interverrà di tanto in tanto a completare la narrazione).

Il regista Jonas Akerlund, con i suoi trascorsi come realizzatore di videoclip (basti citare Prodigy, Metallica, Madonna e Lady Gaga fra i suoi clienti più prestigiosi), mostra i suoi limiti di visione, sfoggiando uno sguardo sospeso fra ironico distacco e trovate sceniche non indispensabili (come le sequenze oniriche che vedono protagonista Dead). Chiariamoci: non tutto è da buttare via. Fra i meriti del film va incluso certamente lo sforzo di aderire esteticamente a quegli scatti che, in assenza di documenti video, ci hanno fatto conoscere Euronymous e tutti gli altri protagonisti delle vicende narrate. E’ apprezzabile, inoltre, il fatto che almeno non si sia voluto calcare troppo la mano con virtuosismi da clippettaro e montaggi fin troppo serrati: il rischio, infatti, era di epicizzare le gesta di personaggi che non meritano alcun tipo di celebrazione per quello che hanno fatto al di fuori della musica.

Non mi piace intervenire nel merito delle scelte registiche, ma se posso esprimere un parere personale, avrei piuttosto gradito uno stile più aderente ai quei canoni di “regia nordica” che altrove ha saputo esprimersi con incomparabile incisività (senza scomodare i danesi Lars Von Trier e Thomas Vinterberg, potremmo guardare anche solo allo svedese Tomas Alfredson). “Control”, il film su Ian Curtis e i Joy Division, anch’esso confezionato da un regista di videoclip (Anton Corbjin, pure fotografo), per mezzo di un suggestivo bianco e nero raccontava con sobrietà e discrezione una parimenti tragica parabola artistica. Poteva essere questo un utile precedente, nel caso si volesse scegliere la via autoriale. Altrimenti si poteva puntare direttamente ad un prodotto ad uso e consumo delle masse, evitare tante sottigliezze e rinunciare fin dall’inizio a raccontare la “storia vera”, costruendo un’opera di totale finzione ispirata ad essa (si guardi al blockbusterRock Star” che riprendeva, con molta libertà, parte della storia dei Judas Priest).

Complica la faccenda il fatto che la storia reale è talmente assurda che lo sceneggiatore si è visto costretto a smussare certi angoli, normalizzare gesti insensati ed altrettanto insensati processi di pensiero per rendere credibile, logica la rappresentazione all’occhio del profano. Per questo addirittura ci si è ritrovati ad inventare una fidanzatina per Euronymous (aspetto che riprenderemo in seguito): non per gettare pepe su una storia che di pepe non aveva bisogno, ma per cercare di ricondurre ad un quadro intellegibile fatti che è davvero difficile spiegare se non si è davvero dentro alla questione.

Il punto cruciale, tuttavia, è che nessuno saprà mai come sono andate realmente le cose e questa impossibilità è espressa in maniera palese nella emblematica frase posta all’inizio del film: “Based on truth and lies”, probabilmente un indispenabile espediente per prevenire eventuali critiche innanzi a passaggi di finzione evidentemente necessari per esigenze narrative. I contenuti del libro da cui il film prende il titolo possono aver offerto una ricostruzione sotto forma di inchiesta, ma non è detto che tale ricostruzione risponda a verità. Anzi, è poco probabile che lo sia, considerato che il sottotitolo del testo, “The Bloody Rise of the Satanic Metal Underground”, sottende una visione "travisata" del fenomeno. Coloro che sono direttamente coinvolti nelle vicende, del resto, non hanno benedetto l’operazione: reazione comprensibile visto che sarebbe difficile per chiunque riconoscersi in un prodotto che entra con tale indiscrezione nella sfera privata.

Non aiuta infine un retroterra sociologico impenetrabile quale è quello scandinavo, reso per altro da un cast di lingua inglese (altra scelta infelice). C’è chi si è lamentato della povertà ed insulsaggine dei dialoghi, ma cosa c’era da aspettarsi da teenager che trascorrevano le loro giornate fra noia e heavy metal? C’è chi persino ha trovato inverosimile che Euronymous ripetesse continuamente “ho inventato il vero black metal norvegese”: ebbene, cari profani, era davvero così, e la sigla “True Norwegian Black Metal” ha campeggiato su più di un retro-copertina di LP rilasciati all’epoca.

Che Akerlund sia stato il primo ininfluente batterista dei Bathory, conta relativamente, ma almeno certifica che il Nostro non sia totalmente estraneo al mondo del metal estremo, che ne conosca le caratteristiche fondanti e le varie declinazioni. Lo conferma una colonna sonora che vede la presenza di nomi del calibro di Celtic Frost, Sodom, Sarcogafo, Tormentor, Bathory, Cathedral, Carcass e molti altri, atti a ricostruire gli umori “metallici” del periodo (almeno questa volta, Santo Cielo, ci siamo risparmiati i Black Sabbath in veste di gruppo satanico!). Il fatto poi che, pur lavorando come regista, Akerlund abbia continuato a lavorare nell’industria musicale, lo ha aiutato nel completare la scaletta con brani azzeccati, come gli svariati pescati dal canzoniere dei Sigur Ros: scelta che giudicherei sensata anche perché gli islandesi, pur suonando tutt’altro genere, restituiscono sensazioni non del tutto estranee all’universo del black metal “nordico”. Tangerine Dream e Myrkur rafforzano questa impressione, laddove la presenza dei Dead Can Dance era d’obbligo, visto che li ascoltavano Vikernes a Blackthorn in macchina dopo aver compiuto l’omicidio.

Forse Akerlund ha inquadrato il fenomeno sociologico, ma sicuramente non quello artistico. Vede il circolo di Euronymous come una branca di ragazzini senza arte né parte, annoiati piccolo-borghesi che si fanno supportare economicamente dai genitori e che si divertono a bere e a fare stupidi scherzetti alle famiglie (visione irrisoria che emerge in certe gag che vorrebbero essere divertenti e confermata dalla scelta di un attore ebreo, Emory Cohen, per impersonare l’antisemita Vikernes). In tutto questo, giustamente, il satanismo ricopre un ruolo del tutto marginale, rappresentando paradossalmente l’unico genuino elemento di trasgressione (di facciata) di questi giovini balordi (solo vagamente si accenna al più elaborato anti-cristianesimo di Vikernes, ideologicamente portato a tutelare le tradizioni della sua terra, a suo dire violentate dal “colonialismo cristiano”).

La musica dei Mayhem, anche per motivi di diritti negati, viene ridotta all’osso, coperta dai versacci e dalle urla belluine di giovani brutti e brufolosi che scuotono la testa in modo goffo. Peccato che le innovazioni stilistiche, concettuali e di attitudine introdotte da Euronymous, Dead e Vikernes siano state del tutto ignorate, lasciando lo spettatore all’oscuro di una importante rivoluzione avvenuta in seno al microcosmo del metal estremo di inizio anni novanta.

Del resto non si potevano adeguatamente evidenziare tutti gli aspetti di questa vicenda così sfaccettata e densa di significati che si intrecciano e contraddicono. Ogni opera comporta una riduzione della complessità della realtà. Una sceneggiatura, in senso strutturale, è un’operazione di sintesi, un “insieme di puntini” disposti su una pagina bianca. Sta allo spettatore, con la propria sensibilità e il suo bagaglio culturale, unire questi puntini e costruire una immagine dotata di senso. Personalmente parlando vi sono degli spunti interessanti in questo film che possono aiutare a meglio delineare il quadro complessivo di una storia che abbiamo conosciuto tramite la musica, le parole, le interviste, gli scatti fotografici, e che oggi trova compimento in un’opera filmica.

Dead, di tutta la giostra di personaggi bislacchi, è l’unico che conserva una certa dignità. Non condivido la scelta dell’attore (Jack Kilmer, figlio di Val Kilmer), che lo fa sembrare poco più che un bambino; i tratti tuttavia che sono stati scelti per descriverlo sono significativi. Dead emerge fin dall’inizio come ragazzo “diverso” dagli altri, fra turbe psichiche, solitudine e reale depressione, ma in tutto questo non risulterà mai patetico. Trapela un forte carisma da questo personaggio, fin dal momento in cui la sua voce lo precede nel nastro che colpisce in modo irreversibile Euronymous e il resto della band. Al netto di gatti uccisi, di vesti sotterrate per “odorare di morte” e di inalazioni di carcasse di animali, la figura che emrge ha del commovente. Come quando grida fiero: “We are the Lords of Chaos!”, ammirando il suo face-painting allo specchio e caricandosi insieme al più teso Euronymous prima di un concerto. O quando vengono rappresentate quelle strane scorribande nei boschi, sempre con l’amico Euronymous, a caccia di gatti o… di qualcosa di diverso...(momenti che ho giudicato, filmicamente parlando, molto suggestivi). Per arrivare all’angosciante sequenza del suicidio, descritta in tutta la sua crudezza. Ricerca la morte, in ogni suo atto, colui che è da ritenere il vero iniziatore della filosofia del moderno black metal (elitarismo, nichilismo, autolesionismo – vedasi le cruente scene di autoflagellazione durante il concerto): purezza, arte fine a se stessa, potremmo aggiungere, rispetto ad un Euronymous più scaltro e sempre mosso da pulsioni “imprenditoriali” (ma vedremo anche questo aspetto).

Varg Vikernes era probabilmente il personaggio più difficile da rappresentare e certo si era partiti in salita con la figura un po’ grassoccia e poco somigliante di Emory Cohen. Ma c’è da ammettere che lo sviluppo del personaggio ha una sua verosimiglianza. Dagli esordi contraddistinti da timidezza (se non sociopatia) in cui il Nostro, fan dei Mayhem, viene sbeffeggiato per il nome di battesimo (Kristian) e per la toppa degli Scorpions sul giacchetto, alla progressiva affermazione di una identità sempre più forte e propensa a compiere gesti estremi. Da ammiratore di Euronymous a suo rivale, fino all’ambizione di usurparne il trono di leader della scena. Forse gli si è voluto anche troppo bene conferendogli un’aura intellettuale associandolo al giuoco degli scacchi (ma non era un appassionato di giochi di ruolo?) e persino innalzandolo allo status di grande chiavatore (con ragazze che si presentano all’Helvete chiedendo di lui, snobbando “addirittura” Euronymous). Falsi storici che hanno la funzione, in poco tempo, di rappresentare un carisma in affermazione/espansione che purtroppo non poteva essere descritto tramite il canale più congeniale, ossia quello della musica di Burzum (ricordiamo che anche Vikernes non ha concesso i diritti per l’utilizzo della sua musica). Il “sorpasso” si ha nella scena più improbabile del film, quella in cui la futura ragazza di Euronymous inizia a spogliarsi su richiesta di Vikernes nelle segrete dell’Helvete, sotto lo sguardo scioccato ed impreparato di Euroymous che iniziava a palesare il suo status di "leader di cartapesta".

Cosa non del tutto vera. Euronymous è stato il vero deus ex machina di quel mondo, mostrando, oltre che innegabili doti artistiche, anche ambizioni imprenditoriali. Lui guida i Mayhem, lui aggrega una vera e propria scena intorno a sé, lui aprirà il negozio di dischi Helvete e lui fonderà l’etichetta Deathlike Silence, laddove il resto dei personaggi coinvolti condurrà solo un ruolo di contorno, alla stregua di cerebrolesi incapaci di compire qualcosa di realmente costruttivo (basti pensare alla figura inebetita di Faust incollato giorno e notte innanzi ad uno schermo TV a guardare film splatter). Certo, potremmo aggiungere che tutti quei “casi umani” non gli sono piovuti in testa per caso, ma se li è cercati come fanno coloro che, animati da insicurezze, hanno bisogno di contornarsi di mediocrità o personalità più deboli. C’è tuttavia da aggiungere che anche lui non era proprio uno stinco di santo e che considerare il suicidio dell'amico Dead come un mezzo per promuovere la propria band non era certo una reazione nella media.

Tuttavia, innanzi all’escalation di eventi (dalle chiese bruciate da parte di Vikernes all’uccisione dell’omosessuale per mano di Faust), egli si sentirà sempre più solo e fuori luogo. In tutto questo, gli occhioni permanentemente spauriti di Rory Culkin (impossibile non pensare alle scene di “Mamma ho perso l’aereo” dove il fratello era protagonista) possono avere una funzione descrittiva per quanto riguarda il suo travaglio interiore. Soprattutto nella seconda metà della pellicola, proprio quando il gioco gli inizierà a sfuggire di mano (alla stregua di quanto accaduto al Topolino apprendista stregone in “Fantasia”), il suo personaggio guadagnerà spessore, sgusciando fuori dai rigidi contorni della macchietta, acquisendo contorni più umani. E passino gli svariati altri “falsi storici”, come quello del set fotografico (la foto in questione è quella celebre con tunica e cappuccio che finirà nel booklet di “De Mysteriis dom Sathanas”) che si concluderà con un bacio appassionato. In questo scorcio finale di film prenderà corpo un vero e proprio percorso di redenzione dal “Male”, dagli eccessi, dall’assuefazione alla morte ed alla violenza (percorso simboleggiato dall’accettazione del rapporto con la sua nuova ragazza) che toccherà il suo apice con il taglio di capelli, simbolo di un traguardo di normalizzazione che verrà interrotto, la sera stessa, con la sua uccisione.

Eccoci alla notte fatale. La regia opta per una lunghissima sequenza ai limiti della sopportabilità: coltellata dopo coltellata (fino a quella decisiva nel cranio, quando la vittima era già riversa per terra inerme), viene rappresentata crudamente la spietata esecuzione di Vikernes. La ricostruzione sembra dar ragione al Conte, con un Euronymous impotente e piagnucoloso, incapace di reagire alla violenza su di lui riversata, forse proprio perché, almeno mentalmente, già fuori da quel mondo orribile di perversione. Sono questi interminabili minuti di fuga nell’appartamento e per le scale condominiali, ignorato dai vicini di casa, inseguito da un implacabile Vikernes, a costituire il climax emotivo dell’opera. Qui la telecamera si fa indiscreta, penetrando nel cuore più profondo di fatti privati che veramente non conosceremo mai, con lo sceneggiatore chiamato giocoforza a lavorare di fantasia (vedasi la trovata insensata dell’assassino che si prepara una tazza di cioccolata, o qualcosa del genere, nella cucina della vittima). Qui si fa tangibile la violenza dell’indiscrezione, la mancanza di pudore, l’idea che forse l’intera operazione non sarebbe dovuta mai esistere, per lo meno non ancora.

Dispiace, a dirla tutta, veder spegnersi questo personaggio che, innegabilmente, era stato motore e centro di tutti gli accadimenti, colui che, da spettatori, avevamo conosciuto ad inizio film mentre strimpellava la chitarra nella sua cameretta e spaventava con versacci la sorella minore. E proprio l’immagine della sorellina alla finestra, triste per la morte di quello strano fratello, costituisce la chiusura del cerchio: forse uno spudorato ricatto emotivo da parte del regista, ma anche una leva importante nello smuovere i sentimenti di chiunque si sia reso conto che, al di là di tutta la spettacolarità e di tutta l'assurdità della faccenda, c’erano non altro che esseri umani.

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