“Instant Classic”
In una congiuntura musicale come quella odierna, in cui lo squilibrio esistente fra qualità dell'offerta e quantità della stessa vomitata sul mercato ha raggiunto livelli parossistici, il bisogno generalizzato di scoprire capolavori e classici ovunque è oramai dinamica tanto scontata quanto raramente veritiera.
Nel caso del nuovo disco di Jonathan Wilson (californiano vicino ai quaranta, approdato alla musica suonata dopo anni passati dietro al mixer come produttore) sul definirlo capolavoro non mi sbilancio, ma sul suo essere già un classico, potrei scommetterci qualche parte corporea. Tale “classicità” si manifesta in maniera duplice: da una parte Wilson si ispira a molti grandi autori classici della storiografia rock americana di fine '60 e '70 (per un elenco dettagliato consultate la playlist di Spotify in cui ha inserito tutti i dischi che hanno ispirato questo “Fanfare”), dall'altra la sua rimane musica al contempo facilmente inscrivibile nelle coordinate storiche suddette ma dal respiro universale e senza tempo.
Con “Fanfare”, che segue il già bellissimo “Gentle Spirit” del 2011, l'effetto sorpresa ovviamente viene a mancare, perchè di Wilson se ne è scritto molto in questi due anni. Magari è presto per esserne certi al 100%, ma dalle prime impressioni “Fanfare” riesce nel piccolo miracolo di ripetere, senza ripetersi, la magia del precedente. Lo fa spostando storicamente i riferimenti più pienamente nei medi '70, tralasciando forse l'afflato mistico West Coast, ma allargando lo spettro sonoro di riferimento
Prendete ad esempio “Future Vision”: partenza orchestrale, slide a seguire, e a metà sbuca un ritmo soul alla Marvin Gaye con organo e chitarra in primo piano. Oppure“Dear Friend” che parte come un carosello quasi natalizio, prosegue rock, inciampa in un bellissimo intermezzo jazzato molto Peter Green solista, e finisce riprendendo il tema iniziale. E' quindi la varietà a farla da padrona assoluta in “Fanfare”, tanto che pochi sono i brani lineari, e spesso sono i meno interessanti (“Love To Love” soprattutto, a metà fra Springsteen e un Dylan poppizzato), il resto è una visita guidata ad almeno due decenni di musica, condotta da una guida che sa quando giocare con le citazioni senza risultarne schiavo.
Si prenda ad esempio l'andamento alla “Echoes” dei Pink Floyd che salta fuori a metà di “Lovestrong”, l'aura mistica del Crosby solista che aleggia prepotente in quasi tutti i brani a preponderanza acustica (“Desert Trip” e “Cecil Taylor” soprattutto ma anche la rarefatta “Her Hair Is Growing Long”). Come scritto però, il nostro il massimo lo dà quando ci prende di sorpresa, come l'ingresso del sax a spezzare l'andamento orchestrale alla Mercury Rev della titletrack. Oppure il flauto che sbuca dal nulla sul sottofondo groovy acustico di “New Mexico”.
Sarà ovviamente il galantuomo Sig. Tempo, a decidere se sto prendendo una cantonata o meno, ma per ora un posto per il podio di fine anno è prenotato.
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