"Dog Eat Dog". Cane mangia cane. Perfetta espressione per rappresentare gli anni ottanta. Una politica internazionale sempre più aggressiva, l'ascesa del neoliberismo, il consumismo sfrenato. Da qualche altra parte invece ci sono il Terzo Mondo, le mosche sugli occhi dei bambini affamati, pozzi petroliferi in fiamme, attentati e deboli alleanze. La musica si fa di plastica, anabolizzata dai sintetizzatori, dai vocoder e dai suoni prefabbricati. L’innocenza che era andata svanendo già negli anni settanta è ormai definitivamente persa in un vortice di latex, acconciature cotonate e trucco carnevalesco.

Siamo nel 1985 e Joni sta attraversando un periodaccio. La si può immaginare nel suo salotto, che fuma a catena, impreca e sbatte le cose. Gli anni ottanta non fanno proprio per lei, poetessa ecologista e sentimentale, in un periodo in cui invece l’amore è l’ultimo pensiero delle persone e del buco dell’ozono non si è ancora sentito parlare. Tra disavventure mediche, e frustrazioni di vario tipo, Joni si mette a lavoro per riversare le sue sensazioni. Ciò che scaturisce da questo processo sono una serie di testi piuttosto aggressivi, talmente diretti da rasentare la strafottenza. Nella discografia di Joni Mitchell "Dog Eat Dog" rappresenta l’album più detestato sia dagli ammiratori che dalla critica. C’è chi dopo averlo ascoltato si chiede “Ma questa è davvero Joni?”. Sì è lei. Come tutti in quel periodo anche la Signora è caduta nella trappola dell’elettronica ottenendo però un risultato poco più che accettabile. Il potere della musica della Mitchell è quello di essere fuori dalle leggi del tempo. "Dog Eat Dog" invece risulta a tratti imbarazzantemente datato e non all’altezza degli altissimi standard di Joni. Se si riesce ad oltrepassare la fredda barriera del suono elettronico e arrivare direttamente al cuore delle composizioni si scopriranno clamorose perle ("The Three Great Stimulants", "Ethiopia", "Dog Eat Dog") e anche altrettante banalità ("Lucky Girl", "Shiny Toys"). E’ però sbagliato, come in molti purtroppo fanno, cestinarlo completamente.

Nel mirino della penna infuocata della Mitchell, tra i tanti, ci sono i predicatori televisivi, la Chiesa, i reaganiani, gli individui affetti dalla febbre consumista, bigotti e via dicendo. Come per "The Hissing of Summer Lawns", l'album si apre con una canzone fuori contesto, a modo suo pacata (Good Friends, in collaborazione con Michael McDonald) il cuo scopo è forse presentarci la nuova svolta sonora di Joni. Si riparte subito con la prima canzone al vetriolo, "Fiction". Questo pezzo sincopato, carico di effetti sonori e chitarre distorte, ci mostra il malcontento per le regole del mondo capitalista (Buy me! Watch me! Listen to me!), ma si focalizza soprattutto sulla frustrazione per i modelli irreali e per i ritmi di vita innaturali che questo sistema ci impone. Il ritornello è un lungo elenco di tutto ciò che c’è di falso in circolazione. Si passa dunque a "The Three Great Stimulants" che ci offre l’esempio lampante del perché non cestinare questo disco. La canzone è la migliore dell’album ed è costruita su una base ripetitiva che ha lo strano potere di trasportarci in una dimensione di angoscia e ossessione, mentre Joni ci canta di come non ci stanchiamo mai delle guerre, di come siamo diventati dei tristi automi e del probabile destino della Terra. Dobbiamo ancora una volta riconoscere la lungimiranza di quest’artista (While madmen sit up building bombs / And making laws and bars / They’re gonna slam free choice behind us). Tax Free è invece un ringhio liberatorio contro i predicatori religiosi: “Fanculo! / Stanotte andrò a ballare / Con i travestiti e i punk / Che il ritmo mi liberi d questo ignobile ipocrita / Non siamo angeli dannati / E lui non è un inviato del paradiso.” Sino al 1985 nessuno aveva mai sentito l’elegante Lady of the Canyon proferire espressioni come fuck it! Questo è indice della sua rabbia e di quale valvola di sfogo la musica rappresenti per lei.

"Dog Eat Dog" non è certamente uno degli album migliori della lunga carriera di Joni, ma a mio parere nemmeno il peggiore. A soli tre anni di distanza avrebbe infatti visto la luce "Chalk Mark in a Rainstorm", improbabile accozzaglia di collaborazioni scandite sempre da una sonorità sintetizzata che poco si addice alla sensibilità e allo stile della Mitchell. "Dog Eat Dog" ha invece un pregio: quello di contenere alcuni dei testi più mordaci e taglienti della poetessa canadese. In conclusione, questo è un album da ripescare, se non proprio per curiosità almeno per riconoscere i suoi pochi ma validissimi meriti e anche per constatare come in uno dei momenti bui della sua carriera, Joni Mitchell è riuscita a mantenere intatto il suo spirito critico.

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