Stretto a sandwich fra le due opere forse più discusse e incensate della biondissima cantautrice canadese (rispettivamente "Blue" del 1971 e "Court & Spark" del 1973) questo valido album, uscito nel 1972 come quinto di carriera, rischia da sempre di passare in secondo piano nel vasto mare della sua produzione. E' il destino delle opere di transizione: i due dischi appena menzionati suonano molto diversi fra loro e "For The Roses" va a porsi a loro equidistanza, come work in progress ed evoluzione tra l'uno e l'altro. 

In quegli anni la Mitchell era considerata, specie dagli addetti ai lavori, anche più che una fuoriclasse: una vera aliena. Innanzitutto per la voce, una specie di campana sopranile di purissima, argentina sonorità (ancora non compromessa dal sempiterno vizio del fumo), intenta a caracollare con sorprendente mobilità sopra basi armoniche di consueta, stupefacente imprevedibilità, quale che fosse lo strumento di approccio compositivo (e cioè la chitarra, al tempo rigorosamente acustica, il pianoforte ed infine il dulcimer, quest'ultimo però accantonato a partire da quest'album) e comunque personalissima, geniale, sofisticata, avanguardista.

In parallelo i suoi testi, sempre intimisti e di inaudita franchezza, spalancati senza filtri sulla propria coscienza ed esperienza, procuravano un generale, ammirato disagio, specie agli amici, colleghi o amanti più direttamente coinvolti nella sua esistenza e persona. Disagio pure per la casa discografica, alla vista dello scatto fotografico scelto da Joni per la copertina: lei nuda e di spalle, in piedi sopra uno scoglio in riva al mare... Scattò una parziale censura, con un'altra foto del tutto castigata finita in copertina, mentre le chiappe dell'allora ventottenne canadese e l'Oceano Pacifico si possono ammirare all'interno dell'album (o sul retro del libretto del cd).

La voglia di jazz della Mitchell, logica soluzione al desiderio di aumentare, in spessore e sofisticatezza, l'accompagnamento strumentale delle sue musiche così aperte ed armonicamente mutevoli, inizia da quest'album, che vede il fiatista Tom Scott aggiungere umori di fusion californiana ad alcuni pezzi. Questa tendenza si svilupperà in crescendo per il resto degli anni settanta, tramite il pieno e ben noto coinvolgimento di maestri come Jaco Pastorius, Charles Mingus, Wayne Shorter in produzioni jazz-folk sempre più raffinate e sempre meno commerciali.

Le dodici canzoni di "For The Roses", per metà condotte al piano e per metà all'acustica, sono lasciate talvolta molto semplici (strumento e voce, tutto solo nelle sue mani) nello stile prevalente di "Blue" e lavori precedenti, talaltra arrangiate per il gruppo accompagnatore, nello stile invece dominante su "Court & Spark" e tutto ciò che seguirà. Sono quasi sempre di breve durata (anche meno di tre minuti) e godono, senza distinzione, del conturbante stile armonico/melodico peculiare a questa a dir poco talentuosa cantautrice: un laborioso, continuo saliscendi di lunghe frasi vocali, magicamente appese al procedere finto squinternato e invece geniale, ingegnoso e libero sulla tastiera. Specie quando la nostra bionda è in azione al pianoforte, i grumi di accordi, rivolti e trasposizioni dei bassi sono qualcosa da far girare la testa a chi ama entrare nei concetti di armonia e composizione.

Quando la signora invece indossa la chitarra, le cose si farebbero anche più lineari, grazie a cambi d'accordo più sporadici, comprese intere strofe che si accontentano di sostenersi alla medesima figura ritmica, ma a quel punto subentra un altro tipo di magia Mitchelliana: le accordature. Lei l'intonazione classica MI-SI-SOL-RE-LA-MI delle sei corde neanche la considera, preferendole tutta una sfilza di cosiddette accordature aperte, dalla quale pescare con disinvoltura quella giusta, canzone per canzone: un vezzo che ancora ai tempi di quest'album la costringeva a dover smanettare sulle meccaniche dell'acustica ad ogni pausa di concerto. Ci ha pensato infine la Roland, in tempi relativamente recenti, a risolverle definitivamente il problema, sviluppando per lei una speciale chitarra elettronica che ha in sé, programmate e istantaneamente richiamabili, tutte le diverse accordature a lei necessarie.

Tornando a questo disco, gli episodi che toccano maggiormente il mio gusto personale sono "Electricity", che si apre con la sola voce di Joni, impagabilmente armonizzata da lei stessa, mentre descrive una melodia sospesa e sincopata delle sue; poi il brano che intitola l'album, giocato sulla tipica tensione creata dagli accordi in chiave minore durante le strofe, risolta dal passaggio in maggiore per il ritornello. Squisita e poetica, anche nel titolo, "Cold Blue Steel and Sweet Fire", mentre fra gli episodi pianistici la mia preferenza va a "See You Sometime".

"You Turn Me on I'm a Radio" è una canzone letteralmente commissionata dalla casa discografica, desiderosa di pubblicare un singolo della Mitchell che fosse decentemente accessibile a tutti. Lei esegue il compito cavandosela con una specie di blues acustico sui generis: gli accordi sono solo tre... ma la voce che ci naviga sopra scappa via dappertutto, toccando le note più improbabili su e giù per più di due ottave, secondo suo costume. Fu discreto successo ai tempi, la prima delle pochissime apparizioni di Joni nelle classifiche dei singoli.

Figura musicale da sempre fra le più influenti e stimate dagli addetti ai lavori (personaggi come Jimmy Page o Prince avrebbero dato, e darebbero ancora, un braccio per collaborare ad un suo progetto), lei è la figura femminile da me prediletta in campo musicale. Questo disco, come del resto molti altri della sua più che quarantennale carriera, rappresenta in maniera consistente e interessante la sua arte e la sua poetica.

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