Joni Mitchell si è palesata nel mondo della musica come un'autentica ed affascinante mosca bianca: non solo per essere una delle poche cantautrici pure di quegli anni ma soprattutto per il suo stile unico, un folk artistico, raffinato e particolarissimo. Questa ragazza canadese, musicista, pittrice e poetessa per vocazione, tenace, forte e temprata dalla vita è veramente un'artista per cui si possono usare a ragion veduta e senza il rischio di sproloquiare termini come influente, seminale, sperimentatrice: sempre tesa in una continua ricerca musicale, mai statica, mai inquadrabile in un preciso genere. Il suo viaggio comincia con i primi album, "Song To A Seagull" del 1968 e "Clouds" dell'anno successivo, ed il mondo della musica si accorge fin da subito di lei: l'affermata Judy Collins interpreta "Both Sides Now" con grande successo, una giovanissima ed esordiente Jennifer Warnes fa propria "Chelsea Morning". Lo stile di queste primi album è forse ancora un po' immaturo ed a tratti ostico, ma Joni dimostra fin da subito la capacità di scrivere melodie affascinanti ed ipnotiche, con un gusto del tutto personale, su tutte "The Pirate Of Penance" e "Roses Blue".
Arriviamo così al 1970: "Blue" è ormai alle porte, e l'album che lo anticipa, che ne definisce in linea di massima le coordinate è "Ladies Of The Canyon", che è anche l'album della piena maturazione per la cantautrice. Nonostante ci siano parecchi punti di contatto tra questi due dischi, notevoli sono anche le differenze: "Blue" è un album semplice, diretto, istintivo, brillante, che entra subito in circolo; "Ladies Of The Canyon" no; necessità più tempo, pazienza ed attenzione: è un intimo, riflessivo, le emozioni sono più rarefatte e "centellinate" rispetto al suo celebratissimo successore, a cui tuttavia non ha assolutamente nulla da invidiare dal punto di vista della qualità complessiva: non che a "Ladies Of The Canyon" manchino episodi leggeri e divertenti, basti pensare alla ritmatissima "Big Yellow Taxi", densa di brio ed ironia ma anche di importanti messaggi ambientalisti, oppure ad una vera, meravigliosa perla come "Morning Morgantown", quasi una trasposizione musicale dell'arte pittorica tanto cara all'artista canadese, in cui il pennello è la voce dolcissima e suadente di Joni, i due strumenti principi del disco, pianoforte e chitarra acustica si intrecciano formando la tela ed il risultato finale è un affresco delicato e sognante; una canzone come l'energica ed incalzante "Conversation" ad un primo ascolto sembra quasi un abbozzo di quello che saranno "Carey" e "California", ma prestando più attenzione ci si accorge che, per il suo songwriting istintivo, spontaneo e torrenziale, per lo stile colloquiale è molto più vicina a "The Last Time I Saw Richard", di cui costituisce quasi un alter ego vivace e ritmato. Tuttavia il nocciolo dell'album è costituito da ballate riflessive, autunnali, splendidamente disegnate dal pianoforte, intrise a volte di dolcezza, come ad esempio "Willy" e "For Free" oppure più cupe ed inquiete, "Rainy Night House", "Blue Boy" e "The Priest", ipnotica, ambigua ed umbratile.
Molti episodi dell'album sono vere e proprie dimostrazioni di quanto Joni Mitchell sia capace di fare con la sua voce: una voce che io definisco come quanto di più umano e terreno ci possa essere: è straordinaria, mutevole, capace di incarnare infiniti stati d'animo, quindi tutt'altro che una banale, stucchevole e stereotipata voce d'angelo; le voci d'angelo nel 90% dei casi sono tutte gran fregature e specchietti per le allodole: Joni Mitchell non è un angelo: è una Donna vera, in carne ed ossa, una Donna nata con il dono di saper trasformare i propri sentimenti in arte, usando tanto il pennello per dipingere, tanto la stilografica per scrivere i suoi testi quanto la voce per cantare. Il suo timbro ipnotico e i suoi eleganti vocalizzi conferiscono alla titletrack "Ladies Of The Canyon" un'atmosfera indefinibile, leggiadra, sottile, quasi misteriosa: una trasposizione in musica dell'essenza femminile più intima e profonda; in "The Arrangement", una sorta di invettiva contro la superficialità diventa tagliente come un coltello, raggiunge tonalità quasi liriche in un climax amaro e tormentato, ben sostenuto dal pianoforte e nella misteriosa, allegorica e conturbante "Woodstock", in cui fa capolino il piano elettrico i suoi cori sono fondamentali per creare una cadenza quasi imperiosa, indefinibile ed affascinante come il canto delle sirene.
Come suggello finale, come ultimo e definitivo colpo di teatro arriva infine la canzone più strettamente definibile come folk di "Ladies Of The Canyon", ovvero "The Circle Game": intrisa di una serenità e di una leggerezza vellutata, accompagnata dalla sola chitarra acustica e da cori di supporto nel ritornello che conferiscono un retrogusto ulteriormente bucolico e contemplativo, questa canzone è una bellissima poesia musicata con garbo e gentilezza; perfetta per chiudere nel migliore dei modi il primo grande capolavoro di questa cantautrice, un'artista che con la sua musica ha sempre adottato un approccio molto "pittorico": figurativo, istintivo, diretto, improvvisato, questo si percepisce sempre in "Ladies Of The Canyon" nonostante l'estrema cura e la raffinatezza dei suoni e dello stile: Joni Mitchell è veramente un'artista in tutto e per tutto, nata con l'arte nel sangue, che la vive e la respira in tutte le sue forme in maniera pura, onesta e personale: secondo me è questa l'essenza del fascino di Joni Mitchell, un'essenza che in album come "Ladies Of The Canyon" si è espressa in tutta la sua pienezza.
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