Tra le tante cose che successero sulla terra nel 1977, belle, brutte, importanti o meno, accadde anche che le note di Paprika Plains, pezzo attorno al quale ruotava l'album Don Juan's Reckless Daughter di Joni Mitchell, arrivarono ai timpani del jazzista Charles Mingus (di seguito per brevità più semplicemente "grande Jazzista"), e da quelle parti fecero la loro bella figura al punto che a lui, il grande Jazzista appunto, venne la voglia di lavorare con il biondo angelo canadese.

La forma definitiva del progetto in cui si concretizzò la loro collaborazione consistette in sei melodie messe sul piatto dal grande Jazzista, mentre Joni Mitchell avrebbe dovuto metterci testi e voce. Prima che si arrivasse alla realizzazione di un album che contenesse il risultato del loro lavoro, il grande jazzista vide bene di salutare questo mondo lasciandolo a leccarsi le ferite causate da tanta perdita, e lasciando lei, Joni Mitchell, alle prese con decisioni importanti ancora da prendere.  Tra queste c'era la questione relativa al tipo di strumentazione da utilizzare per l'album. Il desiderio del grande jazzista, lei lo sapeva, era che si utilizzasse strumentazione interamente acustica e a tale scopo le era stata messa a disposizione una band con i controquaz con la quale erano già state realizzate delle versioni di alcuni pezzi (non so dove siano andate a finire, se qualcuno lo sa me lo faccia sapere). Lei sentiva l'esigenza di rispettare tale desiderio ma era anche convinta delle proprie idee, e queste andavano in un'altra direzione, quella di utilizzare basso e piano elettrici. Uscì dalla fase di stallo seguita alla morte del grande jazzista andando per la sua strada e portandosi dietro buona parte dei Weather Report di quel periodo (mancava Zawinul), Herbie Hancock perché si prendesse cura delle parti di piano e Don Alias perché facesse altrettanto con le percussioni. Per le parti di chitarra ci avrebbe pensato lei. Così si completò una tavolozza di colori irripetibile con la quale nel 1979 fu finalmente realizzato l'album in questione.

Al suo interno ci finirono quattro pezzi frutto di quella collaborazione, altri due li mise lei, interamente farina del suo sacco. Sei pezzi in tutto quindi, inframezzati da registrazioni di alcuni momenti di vita quotidiana del grande jazzista e alcune sue dichiarazioni.    

La maggior parte dei pezzi inizialmente paiono avere un ritmo dilatato. In realtà sono enigmi ritmici di cui solo gli strumentisti riescono a venire a capo. Il testimone di quello a cui spetta farsi carico della ritmica passa da uno strumento all'altro durante il procedere di uno stesso brano mentre chi si libera va dove più gli pare. L'unico che salta il turno perché non ne vuole proprio sapere di far quel lavoro è il sax, Shorter è un pittore e ai pittori non gli si può chiedere di fabbricarsi anche la tela. Durante improvvise accelerazioni li basso crea gorghi da cui sfuggono a turno fantastici cromatismi di piano e pennellate di sax. Chi ascolta non deve capirci niente, deve solo abbandonarsi alla corrente accada quel che accada.

La voce di Joni Mitchell vola sulla musica con evoluzioni ardite come una farfalla inafferrabile, senza cadere nei tranelli ritmici che le giocano gli strumenti.

Tra questi quello maggiormente in evidenza è il basso. 

E' un basso camaleonte e sfuggente che cambia direzione ad ogni armonica. Nei frangenti in cui è libero da impegni ritmici arriva a farsi quasi voce umana, alla maniera di ‘A Remark You Made', pronto a rubare attimi di protagonismo alla voce di ruolo.

Pastorius fa la sua parte senza modificare minimamente il suo stile per cercare di accostarsi in qualche modo a quello del grande jazzista. Fa Pastorius senza se e senza ma. Non mi interessa millantare conoscenze che non ho, per ora la musica di Mingus è per me un territorio praticamente inesplorato. Rimedierò, ma per il momento non so dire se la resa della musica potesse risultare migliore con il suono pensato dal grande jazzista.

I due pezzi scritti interamente da Joni Mitchell meritano un discorso a parte.

"The Dry Cleaner From Des Moines," si differenzia dal resto sotto il profilo ritmico essendo un uptempo dall'inizio alla fine. Per chi è un appassionato del suono del basso c'è da godere un bel po'.  

‘The Wolf That Lives in Lindsey' a mio parere risulta fuori contesto per varie ragioni. Innanzitutto non è un brano propriamente Jazz, e poi è  l'unico pezzo ad avere una strumentazione ridotta all'osso, perlopiù la sola chitarra, qualche percussione ogni tanto e lupi sul finale. Sembra essere un tentativo di evolvere il discorso iniziato sull'album precedente con il brano ‘The Silky Veils of Ardor', e alla fine non mi pare ne sia all'altezza.

I testi. Tre brani riguardano il grande Jazzista, ci sono due suoi brevi ritratti e una dedica al sassofonista Lester Young, suo amico e partner musicale. C'è il pezzo confessionale à la Joni Mitchell (Sweet Sucker Dance), c'è il pezzo sulle ombre dell'animo umano (The Wolf ...) e infine un pezzo che parla di un giocatore d'azzardo (il titolare di una tintoria di Des Moines) che con le slot machines sembra avere un tocco pari a quello che aveva il ragazzo cieco muto e sordo con il flipper.

Il mio è un cinque con un ‘ma'. Cinque perché è tutto perfetto (a parte The Wolf ....), i suoni sono fantastici, i pezzi sono fantastici, lei è fantastica, perfetta, bella, ecc.. Cinque perché c'è anche il titolo da eleggere tra i più belli della storia (God Must Be a Boogie Man). ‘Cinque ma' perché ho la sensazione (personalissima me ne rendo conto) che manchi un po' d'anima. Se si ascolta prima Blue e poi questo si può capire cosa voglio dire.

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