Album ambizioso e sofferto, che all’uscita (1979) fece storcere il naso a molti dei vecchi fan senza riuscire a conquistarne abbastanza dei nuovi e in pratica vendette assai meno degli album precedenti.
Oggi però vale la pena di riscoprire questo MINGUS con un ascolto senza pregiudizi, a partire dalle due tracce a firma – parole e musica - della sola Joni Mitchell, quindi «God Must Be A Boogie Man» e «The Wolf That Lives In Lindsey»: sono due canzoni acustiche dalle sonorità essenziali, quasi beffarda – e in questo senso molto mingusiana - la prima con quel suo insistito ritornello (anche se che cosa sia un boogie man, non l’ho ancora capito!); cupa e inquietante la seconda che chiude sugli ululati di un lupo in lontananza. Fin qui niente di particolarmente nuovo: questi due pezzi avrebbero potuto essere benissimo nell’album precedente, quel “Don Juan’s Reckless Daughter” che d’altra parte con la lunga suite «Paprika Plains» catturò l’attenzione del buon Charlie Mingus ispirandogli la collaborazione di cui a questo album.
Le cose cambiano quando entrano in gioco le canzoni con i testi della Mitchell, ma la musica scritta da Mingus stesso. «A Chair In The Sky»; «Sweet Sucker Dance» e soprattutto «The Dry Cleaner From Des Moines» per il ritmo e «Goodbye Pork Pie Hat» per l’insinuante melodia del racconto, hanno una marcia in più: nell’orchestrazione, negli inserimenti dei musicisti di supporto (… e parliamo di gente come Jaco Pastorius al basso; Herbie Hancock al piano elettrico e Wayne Shorter al soprano!) e nella vocalità di Joanie.
Sarà forse un azzardo, ma secondo me in questa eterodossa e in un certo senso incompiuta collaborazione tra il grande contrabbassista (e geniale compositore) e l’inquieta stella del folk-rock alla ricerca di una svolta di carriera, c’è probabilmente l’intuizione del primo di una nuova strada per il canto jazz, almeno di quello al femminile, che in quegli anni non riusciva ad andare oltre gli standard e le epigone di Ella Fitzgerald o di Sarah Vaughan.
Sia come sia, e al di là del risultato strettamente musicale, che per me è buono ma – per la sua evidente disorganicità - non certo eccellente, questo disco resta una testimonianza preziosa degli ultimi mesi di vita del grande Charlie: la sua voce che scherza con gli amici nel giorno del compleanno e poi uno stralunato dialogo circa il suo funerale nel confronto con quello di Duke Ellington! Frammenti di parlato inseriti tra un pezzo e l’altro che ovviamente non aiutano il “respiro musicale” dell’album, ma che tuttavia incuriosiscono l’appassionato. Tutto trascritto, come pure i testi delle canzoni, che altrimenti non ci sarebbe modo di seguire per un non-madrelingua. E poi ci sono i quadri delle illustrazioni, al solito opera della stessa Mitchell, di cui - commovente – quello in retro-copertina del Maestro di spalle su una sedia a rotelle: una sedia nel cielo, appunto come il titolo di una di queste canzoni.
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