Non ci aveva creduto nessuno al ritiro.

Quando Joni Mitchell, in concomitanza con la pubblicazione del doppio "Travelogue", annunciava il suo commiato dal mondo della discografia, tutti sapevamo che prima o poi avrebbe pubblicato ancora qualcosa.

Gli ultimi episodi erano stati i meravigliosi, per chi scrive, "Night Ride Home" ed il premiatissimo "Turbulent Indigo". Ne seguì un misconosciuto capolavoro come "Taming the Tiger", suonato interamente su di un synth guitar che la Roland confezionò esclusivamente per la Mitchell e che le permetteva di memorizzare le accordature aperte senza dover cambiare ad ogni canzone l'intonazione delle corde della chitarra. Poi arrivò l'orchestrale "Both Sides Now", una parziale delusione per un disco di standard noiosissimo, nonché il controverso "Travelogue", rivisitazione in chiave ancora orchestrale di un ipotetico "the best of". Ma, appunto, nonostante le dichiarazioni di facciata, si sapeva che la storia non era finita.

Ed è per questo che non sorprende rivedere Joni sugli scaffali dei negozi di dischi con delle canzoni nuove targate 2007. "Shine", questo il titolo della raccolta, arriva a 10 anni dall'ultimo album di inediti, il bellissimo e già citato "Taming the Tiger".

I meravigliosi accordi di piano che aprono l'album, nello strumentale "One Week Last Summer" sono uno specchietto per le allodole, in quanto delusione è forse la parola più adatta per definire il ritorno della Mitchell alla discografia. "Shine", infatti, è un disco di un'eleganza e di una perfezione formale tanto inarrivabili quanto purtroppo mediocre dal punto di vista strettamente compositivo. Il sound, dicevamo, è un ipotetico punto d'incontro tra "Indigo" e "Tiger": ritorna la chitarra acustica, ma cupissimi strali di synth irrompono nelle canzoni quasi a voler inquinare una quiete quasi bucolica. Il sax dell'immancabile Wayne Shorter, un cameo di Herbie Hancock, la steel guitar, un uso dell'elettronica perfetto: il vestito sonoro è quanto di meglio la Mitchell potesse farci sentire.

Peccato quindi per la qualità delle composizioni, veramente mediocre per gli standard della cantautrice canadese. Pochissimi spunti melodici degni di menzione, se non quelli della già citata traccia d'apertura, peraltro strumentale. Sembra un disco di scarti, purtroppo, e dopo il quarto o quinto brano il ditino è pronto sullo "skip forward" del lettore perché è veramente difficile continuare l'ascolto di ogni brano fino alla fine senza annoiarsi. Un vero peccato.

Pochi i brani che si elevano da un grigiore compositivo veramente inusuale. "If I had a heart" ha qualche barlume delle grandi canzoni contenute in "Turbulent Indigo"; "Hannah", invece, è un pezzo davvero mediocre, sugli album precedenti avrebbe fatto la figura del riempitivo mentre qui sembra essere il piatto forte della minestra e viene piazzato come quarta traccia. La title track è perfino pomposa, cosa che la Mitchell raramente era riuscita ad essere. Il pezzo conclusivo "If", su testo di Rudyard Kipling, è forse il brano migliore. Anche "Bad Dreams" piace, ma la struttura è esile e priva di inventiva, nonostante qualche brivido - dopo ripetuti ascolti - arrivi. "Night of the Iguana", con un buon uso degli electronics, è appena discreta.

Ah, perché poi una nuova versione di "Big Yellow Taxi"?

Il ritorno di Joni Mitchell è quindi una parziale delusione dal punto di vista compositivo, mentre il sound, elegante e molto contemporaneo (come sempre) avrebbe meritato altro materiale su cui posarsi. A parere di chi scrive, infatti, il sound senza le canzoni è, come dire... il fumo senza l'arrosto! Rispetto a "Shine" anche il controverso "Dog Eat Dog" merita di essere rivalutato.

In estrema sintesi si tratta di un disco dignitoso ma nulla più. Niente di cui scandalizzarsi, ma un disco di Joni Mitchell con due o tre grandi brani e basta è come dire - proseguendo con le metafore - la Juventus che arriva quinta in campionato: un disastro!

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