Un adorabile cazzaro con un formidabile talento melodico, che al meglio del country aggiunge un'ironia caustica degna dei fratelli Mael. Bastano queste poche parole per descrivere efficacemente Jonathan Russell Fritz, barbuto e spettinato songwriter, orgoglio nazionale dello stato del Montana. Quest'ultima cosa me la sono inventata di sana pianta, bisognerebbe vedere come la pensano i nativi della terra delle montagne scintillanti, fossi uno di loro lo penserei sicuramente; fatto sta che è l'unico artista di quelle parti che conosco, ed è veramente un grande. Dopo un paio di album con una piccola etichetta indipendente, qualcuno di importante si è accorto del potenziale di questo artista emergente; "Dad Country" del 2013 infatti è stato pubblicato dalla ATO Records, label fondata da Dave Matthews, e registato a Los Angeles, in uno studio di registrazione di proprietà di Jackson Browne. Un immenso grazie da parte mia a questi signori per aver dato visibilità a un artista del genere.
Musicalmente "Dad Country" è un album tradizionale, senza particolari effetti speciali e inutili mumbo-jumbos: country, honky-tonk, bluegrass, qualche reminescenza western e gospel, chitarre che intonano riffs ruspanti e piacioni, sgangherate linee di piano che fanno capolino qua e là, fiddles onnipresenti, con quel tocco caratteristico e la carica di fascino che solo loro riescono a dare. E poi un bellissimo timbro vocale, limpido, espressivo, che spesso dà una certa impressione di nonchalance, quasi di indolenza: la voce di uno che ne ha un po' per tutti ma non si prende mai troppo sul serio. E le canzoni, oh, le canzoni... ditemi voi, come si può non amare un album che inizia così, con "Goodbye Summer" (notevole anche il video a budget minimo), e poi "Holy Water", colossale presa per il culo dei clichè religiosi tipici del genere, con un'intro di fiddle assolutamente instant-classic, l'impeccabile feeling old-western di "Trash Day" e "Fever Dreams" quest'ultima con contaminazioni irish-folk; un lento a ritmo di walzer, malinconico, evocativo, come "All We Do Is Complain". E "Instrumental", che è esattamente quello che il titolo suggerisce: un album in cui testi e attitudine hanno un'importanza fondamentale si chiude così, con una breve e incisiva cavalcata per chitarra-basso-fiddle: quasi a voler porre l'accento su un discorso di "roots", rivendicare le proprie origini, il proprio territorio musicale e farlo proprio, senza però snaturarlo minimamente.
Ci sono anche degli episodi brevi, di durata anche inferiore ai due minuti, e lo spirito di "Dad Country" sta anche qui, in sketches variopinti come "Wrong Crowd", con un honky-tonk piano dalle connotazioni quasi vaudeville, qualcosa di "pittoresco" che nasconde un'innata propensione al sarcasmo, "Suck In Your Gut", motivetto canticchiato, quasi dimesso, probabilmente l'episodio più lampante dell'innata leggerezza e nonchalance che caratterizza Jonny Fritz, e infine "Have You Ever Wanted To Die?", bucolica, dolcemente melodrammatica, sempre con quel tocco ironico che rende il tutto ancora più bello. I testi sono un grandissimo valore aggiunto; alcuni, come "Wrong Crowd", "Have You Ever Wanted To Die?", "Trash Day" e "Holy Water" sono critiche più o meno velate alla mentalità "inquadrata" delle aree rurali americane, ma anche yuppies, esperti di merketing e fighettume assortito si prendono ma loro meritata dose di prese per il culo, basti pensare a "Suck In Your Gut" e soprattutto "Social Climbers", altro grande pilastro dell'album, con una spassosa progressione corale quasi gospel che conferisce una geniale sensazione di apparente solennità.
Un disco fantastico, friggin' awesome oserei dire, con un flow impeccabile: lodevolmente breve, scorre con assoluta facilità, senza alcun passaggio a vuoto; "Dad Country" è una gran botta di vita e di colore, Jonny Fritz un vero e autentico outlaw, a modo suo, e se ve lo dice Danny The Kid, beh, potete starne certi. Viva Jonny Fritz, viva il country, viva il Montana, viva tutto il North-west e... boh... buon Natale a tutti?
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