Dopo “Da Sweet Blood Of Jesus” di Spike Lee, ecco un altro brillante film che basato su di una storia riconducibile al genere horror (il regista ha dichiaramente affermato di essersi ispirato a un must come "Night Of The Living Dead" di George A. Romero), pone invece in maniera forte un tema sempre attuale negli USA come quello della discriminazione degli afro-americani, un tema che sul piano sociale è stato secondo me centrale e in maniera speciale e consapevole soprattutto a partire dal secolo scorso (non solo negli Stati Uniti d'America) e che appare ancora irrisolto nonostante la doppia presidenza di Barack Obama. Il fatto poi che anche questo film sia una storia di “sangue”, come il già citato film di Spike Lee, è come volere ricondurre lo spettatore alla natura violenta e brutale di una storia cominciata in una età oramai lontana nel tempo e come volere ricercare nelle origini ancestrali della storia dell’uomo, cominciata proprio nel continente africano, le ragioni di una componente malvagia atavica della nostra natura. L’uomo si è da allora slegato dalla sua terra natia e ha rinnegato la sua appartenenza a una sola specie: ha costruito armi sempre più sofisticate e letali, eretto mura, fortezze, tracciato confini sulla carta geografica e dentro la sua testa. La sua storia ha visto evolversi di pari passo lo sviluppo scientifico e la consapevolezza nelle proprie capacità e attitudini e persino la propria sensibilità di pari passo con l’emarginazione di tanti a favore di pochi oppure molto pochi.
Questo film si intitola “Get Out”. Il regista è un giovane afro-americano di soli trentotto anni di nome Jordan Peele (conosciuto finora principalmente come sceneggiatore della serie tv "Key and Peele") e che con questo film si è guadagnato un inatteso Oscar per la migliore sceneggiatura originale: un risultato oggettivamente tanto incredibile quanto giustificato e che è andato per la prima volta nella storia degli Oscar a un afro-americano. Anche se poi questo risultato è il film stesso sono stati ingiustamente poi poco considerati dalla stampa e dai media, cosa che quasi ti potrebbe fare sospettare che alla fine sotto sotto questi Oscar allora un valore artistico e intellettuale ce lo abbiano davvero. La storia è quella di un giovane fotografo afro-americano di nome Chris Washington (il bravissimo Daniel Kaluuya) che viene invitato dalla fidanzata Rose (bianca e appartenente a una famiglia benestante composta dal padre Dean, un neochirurgo, la madre Missy, ipnoterapista, e il fratelli Jeremy, uno studente di medicina completamente fuori di testa e violento) a trascorrere il fine settimana presso la casa in campagna dei suoi genitori. Inizialmente riluttante a questa esperienza, perché dubbioso circa la loro accoglienza, del resto i genitori di lei non sanno che lui abbia la pelle nera, Chris pur di compiacere la sua fidanzata e nonostante gli avvertimento del suo amico Rod, acconsente. Ma la sua si rivelerà una scelta infelice e che lo farà sprofondare in una storia dai contorni grotteschi e carichi di inquietudini e visioni spaventose e poi eventi misteriosi e apparentemente incomprensibili e che si concluderà in un exploit di violenza.
Jordan Peele non è chiaramente Spike Lee: la sua formazione è decisamente differente e forse anche i suoi propositi artistici in generale, eppure in questa sua opera prima coraggiosa e priva di ipocrisia, mette sul tavolo dei contenuti rilevanti e con grande intelligenza ci introduce in un thriller psicologico secondo me definito ingiustamente e in maniera sommaria come un film horror dai contenuti "satirici" ma invece concreti e densi, pregnanti come la realtà.
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