Il film di genere e il pamphlet politico possono coesistere? O meglio, ha senso farli coesistere? Sono più o meno queste le domande che sorgono dalla visione di Noi, il nuovo lavoro del regista di Scappa – Get Out. E le risposte sono tutt'altro che scontate.
In un primo momento può sembrare una gran trovata ricamare un thriller un po' horror con filigrane che parlano di differenze sociali, cittadini di serie A e B (e quindi se vogliamo di nord e sud del mondo, migrazione, confini, classi sociali). Sembra dare vitalità a una vicenda che altrimenti finirebbe nel dimenticatoio come l'ennesimo filmetto. Quindi Peele sa come farsi notare, e il successo di Scappa ne è prova inconfutabile.
Lasciando però decantare i temi e gli spunti di riflessione distribuiti tra scene di sangue, fughe, ammazzamenti e roghi, si insinua il dubbio sempre più martellante che i due filoni siano inconciliabili, e subiscano una fusione a freddo che serve solo come pretesto per dar via alla mattanza. Essendo tutto giocato su una metafora che non si estrinseca mai, sta allo spettatore cogliere i giusti appigli per portare avanti il discorso politico.
Ma in fin dei conti questo discorso è semplicistico, una provocazione puntiforme più che un'analisi o una riflessione degna di questo nome. Anche perché l'impianto concettuale deve fare i conti con le meccaniche di un thriller, dove la gente si prende a randellate. La metafora quindi si concede innumerevoli pause per lasciare spazio al genere.
Nel finale un colpo di coda che getta una nuova luce sulla questione, ma è forse troppo criptico per essere interpretato secondo la volontà del regista (quella che io ritengo tale, ma non ci giurerei). E in ogni caso, si tratta pur sempre di questioni generalissime, ovvie: non serviva di certo questo film per dirci che tutti noi essere umani siamo uguali, ma alcuni stanno meglio e altri peggio.
Perché allora una sufficienza? Semplicemente per la qualità dell'ordito filmico. La scelta delle musiche da sola lo rende meritevole di una visione. Ma ci sono anche sequenze notevoli, beffarde, giocate spesso sui contrasti tra colonna sonora e immagini (canzone pop e scena macabra, orchestrazioni minacciose e piccole gag comiche, etc.), oppure inquadrature ben studiate, alcune da manuale del cinema proprio. E poi non me la sento di bocciare un lavoro come questo che sa tornare a ritmi più umani, che non divora sempre tutto in un raptus, ma sa valorizzare i vuoti allo stesso modo dei pieni. La scena più terrificante ad esempio è basata sull'immobilismo.
Insomma, il buon cinema è tale anche senza politica. Ricordatelo, caro Jordan Peele.
6/10
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