Davvero niente male questo MonsterVerse, a parte il nome. Dopo il buon Godzilla di Gareth Edwards ecco Kong: Skull Island, del non troppo navigato Vogt-Roberts. Bisogna riconoscere una certa affinità tra i due lavori: gran cura della componente visiva, snellimento delle dinamiche e della trama a favore di sequenze d’azione incisive, clamorosamente efficaci, memorabili, riduzione della componente patetica legata alle sorti degli umani in favore di un’attenzione (comprensibile nell’ottica della saga) per gli scontri tra creature. Ecco, nel MonsterVerse gli uomini sono sempre più spettatori di scontri titanici, tra divinità bestiali puntualmente schierate e scisse tra bene e male, e sempre meno responsabili del loro destino, pur cercando di esserlo.
Se vogliamo, la questione morale che sottende l’agire di Kong, re dell’isola e protettore di animali e umani, rende meno fresco e moderno il film rispetto al lavoro di Edwards. Là gli umani erano veramente delle formichine inutili che poco o nulla potevano fare di fronte alle lotte tra Godzilla e i M.u.t.o. che a loro volta combattevano nel totale disinteresse verso l’umanità. Qui è diverso: le dimensioni si riducono, Kong viene ben presto identificato come la forza del bene, mentre i mostri sotterranei, gli striscia-teschi, sono creature quasi demoniache, rapinatrici spietate e pressoché inafferrabili, per la velocità con cui si muovono.
Ciò permette tuttavia di sgranare meglio le dicotomie morali, che lambiscono quasi la configurazione proposta da Miyazaki nella Principessa Mononoke: c’è il bene e il male, nel regno animale come nell’uomo. Ma ovviamente qui è tutto enormemente semplificato e privato della dimensione economica e sociale. Ma è cionondimeno apprezzabile la capacità di portare avanti due filoni differenti nell’agire degli uomini sull’isola e anche una duplice lettura di Kong: non è malvagio, ma di fatto ha massacrato quasi tutti gli uomini di Packard, che non si rassegna e vuole la sua vendetta. Ma anche qui, visti gli esiti dell’avventura e certe scelte di trama (che non rivelo), sarebbe sbagliato andare a cercare una chiave di lettura troppo approfondita.
L’esigenza principale in questo film è quella estetica, che infatti viene assecondata con grande attenzione. Siamo di fronte a un’avventura coi fiocchi, che si ispira nemmeno troppo velatamente al primo Jurassic Park di Spielberg: a rivelarlo sono alcune inquadrature, come quella dall’alto di un uomo che poi viene schiacciato da un piedone. Ma anche l’insistenza sui paesaggi, spesso meravigliosi, suggestivi, o comunque emotivamente connotati, la scansione nitida dell’azione umana sull’isola, le diverse tonalità dell’atmosfera e le varie prove che i nostri devono superare. C’è davvero tanto Spielberg, ma tutto senza mai diventare grossolani, senza copiare malamente.
Tra gli aspetti migliori, annovero sicuramente la struttura: due scene madri gigantesche all’inizio e alla fine, con in mezzo le peripezie dei piccoli uomini sull’isola, in cerca di salvezza o vendetta. Questa linearità è apparente, perché arricchita da diverse sotto-questioni, tutte ben spese nel corso del film. È vero, uno degli sceneggiatori ha scritto anche Jurassic World, ma facciamo finta di non saperlo. Qui gli avvenimenti hanno una loro scansione pienamente efficace, forse anche troppo oliata in alcuni punti. C’è sicuramente un sottofondo di prevedibilità, ma sarebbe assurdo riuscire a fare il contrario: siamo comunque di fronte a un reboot. È lo stile a premiare Kong: Skull Island. L’apparente linearità è utilissima per incanalare gradualmente lo spettatore verso momenti più complicati ma perfettamente fruibili. E allora quando si arriva al gran finale, le diverse fazioni in campo hanno tutte la loro motivazione forte alle spalle, anche il vendicativo Packard. Allo stesso modo, la lotta decisiva tra i due bestioni giganteschi ha una sua durata non esigua, ma non scade mai nell’accumulo caotico di botte da orbi: c’è della pulizia nella messa in scena, la visione è massimamente godibile e senza intoppi.
Questo non è poco in un film d’avventura e azione: ma sono diverse le sequenze movimentate che si fanno notare per la loro qualità. Dalle disavventure nel cimitero degli antenati di Kong, all’arrivo con gli elicotteri sull’isola e il primo tragico incontro con il suo guardiano. E poi ragni, piovre e bufali giganteschi inseriti con intelligenza nel percorso dei nostri. Se guardiamo al minutaggio, l’azione pura non è la componente principale del film, ma sicuramente è quella meglio enfatizzata.
Il resto, le vicende degli uomini in spedizione, non brilla certo per approfondimento, ma almeno evita di riproporre i soliti cliché di questo franchise e di molti film di questo genere. I personaggi di Tom Hiddleston e Brie Larson sono leggerini, ma meno stereotipati di quanto ci si potesse aspettare. O meglio, lo sono esteriormente, tra muscoli, sguardi truci, seni prosperosi, ma non nei comportamenti, decisamente pragmatici. E anche i momenti classici nei quali King Kong salva la bella hanno una loro vitalità estetica nuova, meno romantica e più spettacolare.
Si dà giustamente spazio anche ad altre figure, come quella di Randa, ben interpretato da John Goodman, o il Packard astuto di Samuel L. Jackson. Forse però i più convincenti sono Chapman (il soldato che vuole tornare da suo figlio) e Hank Marlow (il disperso dalla seconda guerra mondiale): due personaggi minori da manuale.
Infine, la scelta di ambientare la vicenda nel 1973 in zona Vietnam è un altro elemento che favorisce la riformulazione estetica della vicenda di Kong. Apprezzabili alcuni dettagli minimi come il pupazzetto di Nixon sull’elicottero, oppure parallelismi arditi come il napalm utilizzato contro Kong, che rimanda inevitabilmente ad Apocalypse Now e così via. Restano giochi estetici, ma assai gradevoli.
6.5/10
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