A volte c'è della musica che ti scivola addosso come pioggia, che ti tamburella in testa lasciandoti dentro un senso di mistero, una sorta di rabbia rassegnata, un senso inconsolabile di desolazione come certi casermoni alla periferia di una qualunque città. Un senso di freddo come la pioggia che picchietta sulla tua finestra nel rumoroso silenzio metropolitano d'una notte qualunque. Un senso di solitudine fra una folla che non capisce e non ti vuol capire. La consapevolezza di avere solo se stessi, una chitarra e del silenzio, tanto silenzio, da riempire.
È questa forse la sensazione che più di ogni altra comunica la musica di José González: l'inquietudine. Una sensazione che ti resta addosso ad ogni riascolto come fumo acre di una sigaretta, che ti si appiccica nel cuore come un disagio indistinto, ma concreto, tangibile, insopportabile a volte. E di certo non è un caso che José citi fra le proprie fonti di ispirazione i Joy Division di Ian Curtis. Ma è anche inevitabile che ascoltando José ricompaia come un fantasma il nome di Nick Drake. Ma anche la presenza e l'insegnamento di Joao Gilberto, e del suo approccio alla voce e alla chitarra.

Perché "Veneer", il debutto di José, è quasi tutto qui: una voce e una chitarra. Pochissime percussioni ("Stay In The Shade"), qualche battito di mani ("Lovestain"), una tromba lugubre e sinistra ("Broken Arrows"). Il resto dell'album sono le sei corde che intonano in quasi ogni traccia ritmi latini spogliati di qualunque bagliore carnale e danzante. Latinità che non riscalda, ma che come un fuoco fatuo lancia riflessi gelidi di un disagio inquietante. Temi semplici e brevissimi, ripetuti in modo ossessivo e claustrofobizzante. E i testi. Spogli, essenziali. Che parlano di croci, di pensieri che non vogliono passare, di pioggia che cancella. E i momenti migliori di José sono forse questi, quei brani in cui più di ogni altro traspare la fragilità della sua voce acerba e, forse, della sua anima. In "Remain", col suo sanguigno ritmo di danza latina sospesa fra le sfuriate di chitarra e quel suo testo da preghiera che nessuno mai ascolterà, prima ancora che esaudire. Nel senso di vuoto che trasmette "Crosses", nel canto che si strozza in gola di "Hints". E nella splendida rilettura folk di "Heartbeats". Svuotata del ritmo electro-pop degli Knife, è forse questo davvero il più riuscito momento di un album che, nel suo insieme, è davvero riuscitissimo. Le chitarra prorompe in soffuse sonorità da cuore vivo e pulsante, mentre la voce si perde e sfuma nei silenzi della rassegnazione mentre il ricordo appare come uno spettro che non si può più stringere: We had a promise made/We were in love...

Uno straordinario debutto per il non ancora trentenne cantante di Goteborg, svedese con radici che affondano nel cuore dell'Argentina. Un debutto stretto a morsa fra la fredda bellezza nordica e la caliente ritmica latina. Ma soprattutto un debutto imprigionato nelle inquietudini e nelle paure più buie dell'uomo metropolitano. Da ascoltare. Assolutamente.

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