Dopo aver recensito l’esordio degli Orange Juice mi sentivo in colpa e non capivo perché. Poi ho realizzato che mancava l’altra gamba e subito rimedio con una recensione volante dei cugini Josef K di Edimburgo. Finalmente ora potrete iniziare a correre…
…All’inizio di tutto c’era la Postcard Records di Alan Horne. Poi vennero i Josef K e il mondo della musica indipendente non sarebbe mai più stato lo stesso. Sarà stata la fugacità della loro carriera - appena due anni dall'esordio di “Chance Meeting” all'addio con il “Farewell Single” - ad incoraggiare i sogni su quello che avrebbero potuto essere o diventare. Fatto sta che i Josef K sono scomparsi improvvisamente, talmente gravidi di promesse incompiute da costituire una sorta di “esca irresistibile” per tutti quelli che amavano sguazzare nel laghetto del post punk. E noi ovviamente abbiamo abboccato come tonni d'acqua dolce (!?), perché è storia nota che “il suono della giovane Scozia” sia diventato mitico e adorato, ben oltre il suo valore reale. Alla fine stiamo parlando di ragazzotti “giovani e stupidi” che strimpellavano abbastanza male i loro strumenti e cantavano anche peggio, ma tant’è…
Comunque sia, facciamo un pò di storia per i più distratti. La scena scozzese di fine anni 70 si polarizzava sulle due principali città, e se le band di Glasgow (Orange Juice, The Pastels, Aztec Camera ecc.) professavano un'ammirazione per Love e The Byrds, allo stesso modo, le band di Edimburgo (Josef K, Fire Engines, Scars) erano sicuramente più in debito con i tratti caustici di Television e The Voidoids. Tutti però amavano i Velvet di zio Lou e allo stesso tempo, “eresia” per il dogma del post punk, ammiccavano senza vergogna a gruppi funky come gli Chic ed i Four Tops. Anche nelle highlands, il punk aveva spazzato via qualsiasi idillio con il rock tradizionale che veniva considerato lo “scacciafighe” per definizione. Nelle due città c’era una scena in fermento e non stiamo parlando di Simple Minds o Deacon Blue. In verità c'era più armonia che discordia tra le due scene scozzesi ma, quando si trattava della musica dei Josef K, era vero anche il contrario. La discordia era infatti un ingrediente fondamentale del suono acuto ed elettrizzante della band. Avventurarsi nel loro microcosmo pieno di dubbi e contraddizioni significa rinunciare all’idea della perfezione pop e scegliere un percorso ben più impervio di quello dei cuginastri Orange Juice.
Il mondo dei Josef K è sempre stato in bianco e nero, esattamente come la loro musica. Personalmente, ho adorato ognuno dei passi “noir” che regalavano fascino e tensione costante alle loro ispide canzoni. Ed il loro immaginario monocromatico, che sembrava uscito da uno scatto di Doisneau, sospeso tra riferimenti letterari ingombranti come Kafka e Camus, è stato per qualche breve anno il mio. Quando cerco di immaginarmi quelle sere fredde e buie, in qualche fumosissimo e scalcinato localazzo fuori mano di Edimburgo, dove una ventina di disperati scuotevano ossessivamente la zazzera al suono furente di “Sorry for Laughing”, ecco, quando mi faccio questo film vado in estasi da rock’n’roll e mi perdo nell’illusione di aver partecipato anch’io. Dalla mia cameretta di quattordicenne, non avrei desiderato altro.
Il disco del quale voglio parlarvi ora sintetizza come forse nessun altro prima la magia di quei giorni perduti. Edito in vinile dalla sempreverde etichetta belga “Les Disques du Crépuscule”, accoglie in sequenza i primi singoli dei Josef K, apparentemente piuttosto fragili e malconci per come cercano ingenuamente una prima combinazione tra pop, funky e psichedelia. L’album si intitola come la loro migliore canzone di sempre, “It’’s kinda funny”. La ballata in questione è una perla rara anche nella loro produzione. Un traballante jangle di chitarra con il contrappunto della voce di Paul Haig distaccata e un pò annoiata, diciamo non proprio un lento da “gran slinguate”. Per me ci sta dentro un pò tutto, l’indolenza tipica di Tom Verlaine e le milioni canzoni che sarebbero derivate da quell’approccio svogliato, da The Jesus & Mary Chain ai Radiohead fino ad arrivare ai Franz Ferdinand. Dicevo appunto che il disco raccoglie quei singoli acerbi ma già definitivi di un suono da venire. Penso che i Josef K fossero, senza saperlo, un'archetipica band da 45 giri, che meglio degli album definivano il loro mood incostante e le loro melodie frastagliate. Nulla che potesse lontanamente far pensare a successi da classifica, come anni dopo bands come i Wedding Present provarono a fare accelerando allo spasimo le loro chitarre. Ma rispetto ai loro coevi, i Josef K avevano un'indole forte ed un’intesità di pensiero paragonabile solo a quella dei Joy Division. Il tentativo di mescolare il punk o quello che ne rimaneva con i ritmi funky, mantenendo sempre alta la sensibilità pop e spostando meccanicamente le canzoni in avanti nel tempo, non so quanto casualmente, ma di lì a poco diventerà uno stile.
La band sembrava avere una forte spinta donchisciottesca contro il successo anche fosse scaturito casualmente da uno di questi singoli che sembravano registrati con il “Geloso” dimenticato dallo zio. Per questo i Josef K stavano costantemente posizionati “contro”, ancora "più in là" dei loro contemporanei come The Associates e compagnia bella, che potrebbero sicuramente aver condiviso una posizione anti-rock ma senza l'avversione al fabulismo che ha reso i Josef K, un qualcosa di ascetico ed unico. A mio parere, la loro è stata l’esperienza post-punk definitiva, senza mai turbare le classifiche ne disturbare paragoni con chi era venuto prima.
Il disco compilativo è veramente splendido, a partire dalla copertina disegnata da Jean-François Octave, la stessa di uno dei loro memorabili singoli. Qui le influenze sono indossate apertamente e senza vergogna, ma convergono per creare qualcosa di innovativo. A volte la band prende qualcosa in prestito dalla oscura produzione del Martin Hannett di "Unknown Pleasures" (“Radio Drill Time”, “Final Request”), altre volte il suono si arrovella quasi gratuitamente. Le chitarre fendono costantemente l’aria mentre il basso è bizzoso, come nella stupenda "Crazy To Exist" che potrebbe benissimo provenire da uno dei primi singoli di The Fall. Le grandi canzoni ci sono eccome, ma restano sempre mimetizzate sotto una produzione ispida e poco ospitale. Parliamo di lo-fi quando il lo-fi non si sapeva ancora bene che cazzo fosse. “Chance Meeting” ad esempio è quanto di più simile ad un classico che la band abbia mai suonato ma chi può scoprirlo sotto quella coltre densa di accordi, esattamente come in “Sorry for Laughing”, quest’ultima coverizzata di recente persino dagli avvoltoi del punk, i Nouvelle Vague. Le chitarre sparigliano costantemente le melodie d è com pisciar in un cespuglio di rose. Come in “The Missionary”, dove gli affilati riff della ritmica di Malcolm Ross giustapposti alla solista sghemba e quasi twang di Haig, restituiscono un effetto deragliante e pungente come spine. Lo stile vocale succinto ed essenziale di Haig stesso, spesso tende in modo spudorato a enfatizzare e trattenere la parola finale di ogni verso, in favore di un'enunciazione molto ritmica e secca. Come in “Pictures (Of Cindy)” che anticipa in parte l'affascinante dilettantismo di The Pastels e tutto quello che verrà.
Il disco scorre via come uno scroscio di pioggia “dritta e fina sulle mani” e non potrebbe essere altrimenti, non dimenticate che siamo in Scozia. L’impressione finale è che in questa serratissima sequenza di canzoni, che alle orecchie meno attente possono sembrare tutte un pò simili e caotiche, i Josef K si muovano con un ordine tutto loro, a differenza di coevi chiassosi ma un pò irrisolti come i Fire Engines. La loro (presunta) grandezza sta in fondo tutta nella capacità di coniugare il verbo oscuro del post punk con un romanticismo forse un pò sregolato ma memorabile. Concludo affrmando che i Josef K erano, a mio parere, una band fatta per il vinile, se mai ce ne sia stata veramente una. Questo album, stampato solo su vinile nel 2016, entra a pieno diritto nella collezione perfetta di chiunque possa essersi interessato alla musica alternativa ed alle sue origini. Non solo per il suo coraggio e la sua originalità, né semplicemente perché ha la chitarra più ostica e frizzante mai suonata da qualsiasi band scozzese, ma anche perché la collezione di ogni vero intenditore non può prescindere dalla leggenda. E loro, a pieno titolo, lo sono diventati.
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imasoulman
18 mar 22Se prendessero mezza sterlina di royalties per ogni brano che a loro rimanda palesemente, sarebbero multimilionari...
gaston
18 mar 22lector
18 mar 22Mike76
21 mar 22Mike76
21 mar 22