E' il settembre 1942, e la sesta armata tedesca è quasi giunta al fiume Volga durante i sanguinosi combattimenti contro l'armata rossa per la conquista dell'importante città industriale di Stalingrado; questo lo scenario in cui si ambienta il film, una delle più sanguinose battaglie dello scorso secolo.

E' tra le rovine della città che si muovono i personaggi che popolano il film, un gruppo di soldati tedeschi che si scontrano con la disillusione di trovarsi loro malgrado a combattere per una causa in cui non credono più.

"Stalingrad" non è sicuramente un film innovativo, e di certo non è il più rappresentativo tra i film di guerra o di denuncia, ma esprime in modo efficace il suo messaggio, attraverso una buona dose di violenza e un potente mestiere narrativo. C'è da dire che non rende minimamente l'idea di cosa sia stata psicologicamente e storicamente la battaglia di Stalingrado, dal momento che l'interesse è più incentrato sulla psicologia dei singoli personaggi: la battaglia potrebbe essere una qualsiasi e i personaggi potrebbero appartenere a qualunque esercito. Il messaggio non è dissimile da quello di classici della letteratura come "Niente Di Nuovo Sul Fronte Occidentale" di Remarque, da cui prende palesemente ispirazione: cosi come il protagonista si scopre uguale al nemico immerso nel fango con un uomo che ha appena ucciso, cosi Vilsmaier rappresenta l'incontro tra tedeschi e russi, intenti a raccogliere i propri morti; la disillusione del Tenente Witzland (Kretschmann, unico attore di una certa fama nel cast) quando si accorge di cosa sia una guerra, e rimane schiacciato negli stritolanti ingranaggi del militarismo, è la stessa descritta da Remarque. Ma più che Remarque, il film punta a omaggiare Sven Hassel, scrittore più o meno noto, che, in modo non dissimile da Remarque, ha narrato gli orrori della guerra, inventando comunque degli stereotipi che sembrano ispirare almeno la metà del cinema bellico; a partire da soldati insubordinati e ribelli all'autorità, passando per l'implacabile violenza della burocrazia militare, fino alla descrizione drammatica e dettagliata della violenza dello scontro.

Vilsmaier mostra senza problemi scene di estrema violenza, che niente hanno da invidiare a film come "Salvate il Soldato Ryan" di Spielberg, senza però essere adeguatamente supportato dai necessari mezzi tecnici, risultando quindi, talvolta, poco efficace. Pur essendo legati a stereotipi Hasseliani, sono invece ben sviluppati i personaggi sotto il profilo psicologico, attraverso i quali si riesce a percepire un'esasperazione e uno logoramento continuo, e sono giustamente rappresentati da volti per lo più anonimi, come a voler sottolineare l'anonimità di alcune picccole pedine in un'enorme partita.

Se la prima parte del film non si discosta molto da quanto già visto in altri film di guerra, con battaglie casa per casa, cameratismo ed insostenibile violenza, la seconda metà del film è probabilmente ancora più pesante, proprio perchè la guerra sembra dissolversi, insieme a tutti i suoi stereotipi camerateschi e violenti, lasciando spazio a un limbo di neve e desolazione, dove poter morire senza ormai aver nemmeno più un nemico contro cui combattere, privi ormai di ogni umanità, senza più alcuna speranza o interesse a sopravvivere. Nonostante le buone premesse, il film, come già detto, pecca talvolta dal punto di vista tecnico, con una recitazione non sempre all'altezza e qualche momento fin troppo confuso e dilatato (come la sequenza nelle fogne); per i più pignoli non mancano nemmeno alcuni marginali errori storici, su cui si può comunque tranquillamente soprassedere.

In conclusione "Stalingrad" è un bel film contro la guerra e contro il militarismo, che non concede nemmeno la solita giustificazione che tutta la violenza che i protagonisti compiono, la compiono nel giusto, contro cattivissimi omini che non fanno altro che urlare e ammazzare sadicamente come fa Spielberg, ma ci mostra la guerra su molteplici aspetti, dal punto di vista di chi i "buoni" ha dovuto combatterli suo malgrado.

Un film da riscoprire, in particolare per chi ha apprezzato il sopracitato Sven Hassel, cui Vilsmaier tributa un palese omaggio.

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