Gli incontri casuali spesso finiscono per essere i più proficui; di solito mi danno soddisfazioni anche maggiori di quelli fortemente ricercati. Non fa eccezione quest'album venutomi tra le mani in modo rocambolesco e divenuto, senza alcun dubbio, uno dei miei preferiti dell'ultimo biennio.

Confesso di non conoscere la produzione precedente di Josh Rouse, cantautore americano proveniente da Nashville, che mi dicono essere alquanto tendente allo spleen e con almeno un album, "Home", notevole, ma questo lavoro mi ha stregato fin dal primo ascolto. Dieci canzoni dieci di raffinato, fantasioso, ispirato cantautorato nel solco di James Taylor, di Jackson Browne, di Eric Andersen, e l'elenco potrebbe continuare, arricchite da non pochi riferimenti all'altra musica di quell'epoca (Al Green, il "philly sound", Steely Dan, perfino un po' di "Disco").
Il 1972 è l'anno di nascita dell'artista, quindi i ricordi musicali non devono essere tutti di prima mano. Ma il "miracolo" dell'album è quello di farti rivivere le atmosfere dei seventies, di immergerti in quel periodo controverso senza grondare nostalgia, sentimento nobile ma solo in dosi omeopatiche. La strumentazione è decisamente vintage con sax, wurlitzer, vibrafoni, ma adoperata con rigore e senza mai cedere alla tentazione filologica.

Un album che non ha cadute di tono; brani tenuti insieme dall'idea di fondo, dal taglio pop, ma diversi nello stile; l'impressione è come se ognuno di essi facesse riferimento ad una delle canzoni che Josh ascoltava alla radio da bambino, improvvisamente riemerse a far sentire la loro influenza.
Da questa specie di seduta psicoanalitica viene fuori il ritratto di un artista rigenerato, in stato di grazia, che guarda a quelle radici per ricostruire, affidandosi sia all'immaginazione che alla memoria, la sua storia, che è anche quella di tutta una generazione.

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