C'era indubbiamente non poca curiosità per ascoltare cosa poteva nascere dalla collaborazione tra il mitico produttore made in Usa Rick Rubin (storico produttore di molte delle migliori opere rock degli ultimi anni) e il Lorenzo nostrano (come barba stravince il primo per distacco), soprattutto dopo due Album che avevano regalato indubbio successo commerciale (con annessi concertoni da stadio e pop da scassa cranio) e più che fragorosa battuta d'arresto a livello artistico (per la serie “Sei come la mia moto” il loop era stra-meglio)

14 brani che riportano alla lunghezza standard “Cherubiniana”, risparmio l'elenco descrittivo pezzo per pezzo, che oltre ad essere pura noia ed esercizio meramente descrittivo, allontana piuttosto la comprensione globale del disco, inoltre lo stesso Lorenzo commenta il disco pezzo per pezzo e la collaborazione con Rick (parole facilmente reperibili tramite motore di ricerca e non solo) quindi passo alle mie impressioni.

Fin dal primo ascolto emerge chiara l'impronta sottrattiva e minimale del produttore, che toglie tutto quel che si può in almeno la metà dei pezzi, sorprendente e singolare per un disco di Jovanotti scoprire che la sua parte più corposa sia puramente Folk, voce e chitarra ne più ne meno, sullo sfondo il silenzio, poco più vicino la linea melodica chiara asciutta, e le parole in primo piano pienamente a fuoco, tante tante parole. Questa versione“Folk-Rap” è un po' spalmata per tutto l'album ma nel finale trova il suo apice tangibile,“Affermativo” è uno di quei rari pezzi che privi di orpelli arrivano veramente dove vogliono, le parole di Lorenzo colgono corde molto profonde, quasi invitano al silenzio dell'ascolto, sembrano rallentare fino a mettere in pausa il corpo da ogni azione, spingendo alla condivisione di un punto di vista, a un qualche giro di pensieri intorno al cambiamento, alla libertà che sia di espressione o dalla paura.

Se questo tratto stilistico diventa il primo e più rimarcabile elemento di discontinuità, comunque non basta da solo a definire globalmente l'album, infatti la restante metà non acustica è un vortice piuttosto eterogeneo di suoni e stili, dove segnalo forse il più bel reggaeton-funky della storia “In Italia” un pezzo con un groove degno del miglior Jovanotti, peraltro unico pezzo del disco con una batteria suonata nonché l'unico pezzo davvero corale del disco. Il coraggio di osare non manca alternando voce errante con tappeti minimali di synth alla deriva, oppure tra il reggae e l'industrial passando dal riempi pista più intimistico che si possa ascoltare guardando le stelle, perché al di là del relativo gusto soggettivo nella scelta degli arrangiamenti, che a tratti (vedi soprattuto “Amoremio”) fanno emergere qualche giusto interrogativo, è indubbiamente l'opera più intimistica e coraggiosa di Lorenzo.

Il viaggio artistico che si era fermato al disco Safari qua riprende di colpo, dando corpo e molto spazio all'impronta da cantautore un po' abbandonata dopo il successo di “Fango” del 2008 (pluripremiato come testo), e ripartendo da certi luoghi della memoria e dell'infanzia, citati nei testi e nel video del brano title track, il viaggio di Jovanotti questa volta non lo porta altrove, come per L'Albero a Cuba, per Capo Horn l'America Latina, Il Quinto Mondo – Africa, oppure recentemente e agli albori del primo Jova in Usa … qua siamo “In Italia”, con tutte le questioni aperte dell'oggi (Il Mediterrano in primis) che in parte richiamano storie dal passato, di ragazzi che giocano in un cortile, di spazi e idee da rispolverare, della non paura del diverso come dell'incrollabile Jovanottiana fede nell'amore (d'altronde lui ci crede davvero davvero davvero e non è che qua uno possa avere il minimo dubbio in merito). Insomma le linee tematiche di fondo poi sono rituali, diverso è il modo in cui si è messo a nudo qua più di sempre, in questo Rubin ha svolto magistralmente il suo lavoro, regalandoci un Lorenzo d'autore davvero intenso.

Senza coraggio non c'è artista (andatelo a dire agli U2 please !! ) vedere l'ultimo brano, qua per la prima volta le parole lasciano spazio a tanta musica, “Fame” sembra proprio una jam session improvvisata, con fiati e chitarra a intrecciarsi reciprocamente e nel finale una Fender resta sola con la sua trama di note stratocasterizzate che lentamente trovano posa dopo 8 minuti abbondanti, che non possono non saziare .

E allora Viva la Libertà di tornare a fare Rap magari accompagnato solo da una 12 corde e/o continuare a sperimentare intrecciando suoni e ritmi, come pure quella di sberciare Vivaaaaa a più non posso, manco fossimo a brindare con l'ennesimo boccale di birra (magari la prossima volta diamo una soglia massima all'uso indescriminato di vocoder ).

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