Jovanotti è uno degli artisti che ormai rappresenta "una garanzia" per la massa degli ascoltatori di musica italiani, risultando uno degli artisti che vende di più, ogni volta che rilascia un album. Ma c'è una cosa che differenzia Lorenzo Cherubini (è questo il suo vero nome) dai "grandi nomi" della musica italiana: è sempre capace di produrre un disco diverso dai precedenti, qualità che, ad esempio, gente come Eros Ramazzotti, Laura Pausini o Biagio Antonacci non hanno, ripetendosi e pur ottenendo degli ottimi riscontri di vendita.

E' un artista sorprendente, in positivo e in negativo, anche se il suo migliore prodotto è per molti quel "L'albero" del lontano 1997, che lo stesso Jovanotti presentava come "il suo disco più bello... di sicuro". Il problema è che proprio da quel 1997, Cherubini pubblica dei dischi sicuramente validi, vuoi per la qualità dei musicisti che per i suoi testi (l'elemento chiave delle sue canzoni), che però risultano altalenanti: un misto tra capolavori e composizioni molto brutte, com'è accaduto con "Il quinto mondo" o "Safari". Il pregio di questo "Ora" è che riesce a suonare finalmente come un disco "autentico": non c'è niente di forzato, è tutto genuino, "sentito" dall'artista, che per questo nuovo lavoro sceglie la strada dell' "elettronica calda", come egli stesso la definisce, perché, oltre ai synth e ai computer, c'è anche l'anima, di un Jovanotti ormai quarantaquattrenne, ma che vuole sempre rinnovarsi, e stupire gli ascoltatori.

La opening-track "Megamix" sembra proprio una canzone concepita come "intro" del disco: è uno sfogo, una canzone che da subito preannuncia quali sono le inclinazioni strumentali del disco: synth e sequencer insieme a basso e batteria acustica, una "fusione" che si poteva già intuire in "Buon Sangue". Quando "il Jova" si affida a questi strumenti, spesso realizza delle belle composizioni: è questo il caso di "Sulla Frontiera" (che contiene una riuscita citazione di Battiato). Ma il vero pezzo forte del "ragazzo fortunato" degli anni 2000 sono i lenti: infatti i pezzi più riusciti del disco sono "L'elemento Umano", "Le tasche piene di sassi" e "Un'illusione": testi romantici, molto significativi, come ormai è tipico di Jovanotti, che riescono però ad essere più maturi rispetto ad altri, come ad esempio "A te" del penultimo disco "Safari".

Particolare è invece "Sul lungomare del mondo", un reggae che da tempo non si sentiva nel suo canzoniere. Discutibili sono, invece, "Il più grande spettacolo dopo il Big Bang" e "Dabadabadance": due canzoni sicuramente evitabili, la prima costituita su un banale giro di accordi e un testo che farebbe pensare al Jovanotti di qualche tempo fa, e la seconda, che sembra più un gioco, nella quale non fa altro che ripetere il titolo del brano più volte. Inoltre, sono presenti dei deliri elettronici che pur suonando "veri", sono spesso fini a se stessi ("Spingo il tempo al massimo", "La medicina", "Go").

In sintesi, è anche questo un album altalenante, però si intravede un segnale di crescita rispetto ai lavori precedenti: finalmente Lorenzo fa la musica che vuole, senza dover dare conto a nessuno.

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