La musica dei Joy Division o la si ama o la si odia. Per le suggestioni poetiche di Ian Curtis vale, grosso modo, lo stesso discorso. Pseudo-alternativi, anonimi e gregari seguaci di trends (mainstream come underground), spersonalizzati kritikini e fanatici di John Vignola, non solo non hanno mai compreso i Joy Division ma, molto probabilmente, non hanno mai realmente ascoltato i loro brani. Molti di loro vi diranno che, in realtà, conoscono a memoria tutte le loro composizioni, che amano questa band all'inverosimile (dopo l'uscita di "Control" è diventata prassi quotidiana) ma, ripeto, non capiranno mai un granchè e, con quasi assoluta certezza, avranno prestato solo un vago e distratto ascolto alla rivoluzionaria proposta del gruppo.
Io, per contro, non credo nè pretendo di essere il profeta del verbo joydivisioniano ma, tendenze suicide a parte, credo di avere a mia disposizione i requisiti necessari per poter comprendere, almeno nei suoi aspetti fondamentali, questa leggenda e per poter descriverla in maniera efficace. Quali sono, allora, i requisiti necessari per un'operazione di questo tipo? Una certa predilizione per la sobrietà stilistica, un sincero interesse per espressioni artistiche fredde e minimali, il rifiuto del sensazionalistico e noioso circuito mediatico (Curtis rilasciò, infatti, pochissime interviste ed in maniera assolutamente svogliata), un'insofferenza acuta verso i paralizzanti quanto rigidi paradigmi stilistici ed una forte perplessità nei confronti della facile retorica politica che, spesso e volentieri, assume toni moralistici e salmodianti nel rock.
Perchè questa lunga premessa? Per sfatare un pò di luoghi comuni e per gettare un pò di fango sui noiosi "intenditori" che, specialmente negli ultimi anni, stanno tristemente celebrando un non ben definito culto, culto revivalistico riguardante la figura del defunto Ian Curtis. Insomma, lungi da me inutili, infantili e solipsistici settarismi ma, a ben vedere, le folte schiere di boriosi "kritikini" non potranno mai comprendere, sopratutto nei suoi pregevoli dettagli, la proposta dei mancuniani più oscuri della storia del rock. Un punk, un mod o un metallaro, al contrario, troveranno meno difficoltà nel comprendere i Joy Division, proprio perchè poco avvezzi alle sterili, immobilizzanti e mortificanti chiacchiere di certa stampa/kritika.
Ma torniamo a noi. Avrei potuto recensire, con assoluta tranquillità, dischi fondamentali come "Unknown Pleasures" o "Closer" ma, a ben pensarci, il legame affettivo che mi lega a questi due lavori mi avrebbe spinto a formulare affermazioni alquanto rischiose. Per evitare questi facili favoritismi, anche illogici, mi sono quindi limitato ad analizzare il postumo "Still".
Per alcuni una sorta di terzo ed incompiuto album, per altri una sufficiente raccolta corredata da una non formidabile parte live e per il sottoscritto un disco indefinibile ma comunque struggente e pieno di tensione.
"Still" assembla, con intelligenza, rarità e singoli prodotti nella breve carriera della band. In brani come "Ice Age" e "The Kill" è l'aspetto punk, anche se glaciale e sinistro, a dettar legge. In "Exercise One", "The Only Mistake" e "Something Must Break" è il lugubre ma essenziale cerimoniale "dark" a trasportarci nei gironi dell'inferno joydivisioniano. Menzione a parte per l'ipnotica "Walked In Line", con il suo incedere marziale e cadenzato, con una voce sommessa e spietata che narra dei crimini di guerra (per alcuni si tratta dei crimini sovietici, per altri di quelli nazisti, per il sottoscritto si tratta di una sincera accusa contro tutti i militarismi). C'è anche una cover, piuttosto personale, di "Sister Ray" dei... pensateci un pò!
La seconda parte dell'album, invece, ci regala uno degli ultimi concerti tenuti dalla band, quello del 2 Maggio del 1980 alla Birmingham University. Il concerto, oltre ad essere intenso e carico di suggestioni che solo i nostri sapevano suscitare, è una sorta di testamento sonoro ed umano, eseguito 16 giorni prima del tragico suicidio di Ian Curtis. Dal palco, il nostro, si limita a cantare in maniera composta ma tremendamente sincera, rivolgendosi davvero poche volte al pubblico e con un flebile filo di voce. I brani migliori della band vengono qui eseguiti con disinvoltura anche se, ad onor del vero, la registrazione non rende pienamente giustizia a questa loro performance. Ma, forse, una produzione di questo tipo ha il pregio di catturare lo spirito genuino ed immediato che da sempre ha caratterizzato i quattro. Il laconico "Thank you, good night", che Curtis rivolge al pubblico dopo le ultime note di "Digital", è agghiacciante. Qui non si tratta di necrofilia ma di un triste presentimento confermato, ormai da decenni, dai fatti.
I Joy Division erano sì figli del loro tempo, e lo si capisce anche da questo album, ma hanno avuto il grande merito di esser riusciti ad aprire squarci percettivi al di là della dimensione spazio-temporale. In un mondo di gomma e plastica, ossessionato da continue luci e da fastidiosi colori sgargianti, da insegne pubblicitarie situate in ogni dove, da vuote e continue chiacchiere e da facce da culo onnipresenti; la musica essenziale proposta da questi ragazzi, rappresenta uno degli ultimi tentativi di apertura verso dimensioni sovraindividuali e "altre". Sembrerà banale, ed obsoleto, il paragone con Jim Morrison ma, doti canore a parte, entrambi i frontmen sono riusciti a toccare le corde dell'animo dell'ascoltatore più attento e predisposto. Curtis, a mio avviso, con uno stile molto più europeo e, forse per questo, maggiormente affascinante. Ma lasciamo da parte i continentalismi e spegnamo la luce. Le note di "Still", per quanto acerbe ed eternamente giovani, ci attendono in tutto il loro fresco e drammatico splendore.
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