Due dei nomi più singolari dell'odierna scena hip-hop uniscono le proprie forze per dare alla luce un lavoro camaleontico e stordente, che si smarca nettamente dalle scelte di altri interpreti notevoli del genere e non ha eguali in un anno musicale che ha finora lasciato piuttosto tiepido chi scrive.
JPEGMAFIA, nome d'arte di Barrington Hendricks, è da sempre una mina vagante. Produttore e insieme rapper, vomita rime di denuncia su melodie oblique e campionamenti mai scontati. Incapace di scendere a compromessi, Peggy – così viene chiamato nei tag che fanno la comparsa anche in questo "SCARING THE HOES" – è l'equivalente di un errore nella matrice, un'anomalia nel mercato musicale. Danny Brown ha invece costruito una carriera su testi crudi ed autobiografici, cautionary tales sulla spirale di droghe e sesso da cui lui stesso pare non essere ancora uscito (poco prima dell'uscita dell'album in questione ha anzi annunciato l'inizio di un percorso di riabilitazione guidata), conditi da ironia sagace e cantati con un peculiare timbro da folletto indemoniato. I due si conoscono e rispettano da parecchio tempo, ma il loro sodalizio non ha prodotto frutti tangibili fino all'album in questione, la cui uscita ha scalzato la disastrosa ospitata in un livestream di Rockstar Games come momento più importante della collaborazione.
Interamente prodotto da JPEGMAFIA, "SCARING THE HOES" trae le sue premesse dalla Internet culture, in cui è immerso fino al midollo. Nel merchandising ufficiale figurano magliette che fanno il verso a RateYourMusic e copertine alternative del CD con la scritta "JPEGMAFIA blocked you". Il titolo dell'album, emblematico, fa riferimento al meme secondo cui riprodurre musica eccessivamente sperimentale attraverso una cassa Bluetooth rischierebbe di spaventare ed allontanare le ragazze verso cui si hanno interessi romantici. Il testo della traccia omonima ricalca pedissequamente il luogo comune appena descritto (Stop scaring the hoes / Play that shit'll have them touch they toes / "We don't wanna hear that weird shit no more / What the fuck is that? Give me back my aux cord") e vi aggiunge un bonario rimprovero da parte del quarantaduenne Brown nei confronti dei rapper di oggi (Where the autotune at? / Give a fuck about a trap). In diverse occasioni lungo la disordinata scaletta si espande su quest'ultimo argomento: è il caso di "Jack Harlow Combo Meal", in cui Danny Brown attacca l'eponimo trapper soprattutto sul piano dell'integrità morale. Harlow ha infatti concluso da non molto un fruttuoso accordo attraverso il quale si è reso rappresentante della catena di fast food KFC; da qui il titolo della canzone.
I rimanenti testi toccano con surrealismo, sarcasmo e frequenti boutade i temi cari ai due protagonisti. Folti dunque i rimandi al consumo di droghe (Is it the ket, the meth, the weed, the lean, the molly, the boy or the blow?, da "Fentanyl Tester") e le invettive contro l'iniquità, l'abuso e la scarsa attenzione verso la comunità afroamericana (Uh, it's black AOC / No matter what they try to say they can't K.O. me, da "Muddy Waters"). Non sorprende, poi, l'elevato numero di riferimenti a musicisti provenienti da mondi anche diametralmente opposti (non solo Eazy-E, Freddie Gibbs, i De La Soul, Dr. Dre e i Run the Jewels, ma anche Jimi Hendrix e i Prodigy): Brown aveva citato Joy Division e Nine Inch Nails nel suo lavoro solista più riuscito, "Atrocity Exhibition".
Lo stesso approccio genreless si ritrova nella componente musicale. JPEGMAFIA ha scelto di creare un disco alla maniera degli anni '90, preferendo alla comodità di un DAW le limitazioni del Roland SP-404, sampler ormai non più in produzione. La fantasia nei campionamenti è senza pari: Peggy pesca a piene mani dalla tradizione soul e RnB ("Fentanyl Tester" abbina vocal chops tratti da "Milkshake" di Kelis a breakbeat e sintetizzatori che non suonerebbero fuori posto nella soundboard di Wii Sports), non lesina sortite in territori gospel ("HOE" e l'ipersatura "God Loves You") e mostra inoltre un sorprendente amore per il mondo nipponico (l'etereo sample su cui si fonda "Kingdom Hearts Key", nonché le pubblicità giapponesi che aprono "Garbage Pale Kids" conferendole un inaspettato tocco industrial).
Ad onor del vero, non tutto funziona perfettamente in questo baccanale. Pur avendo appurato che "SCARING THE HOES" è a tutti gli effetti un cantiere aperto, un lavoro che non ha alcuna intenzione di nascondere le sue crepe, è difficile non avvertire come uno scivolone "Orange Juice Jones", in particolar modo dopo la splendida prima parte dell'album. Il sample, questa volta di un giovane Michael Jackson, non è sufficientemente rielaborato e viaggia su frequenze troppo simili a quelle della voce di Danny Brown, che viene sotterrata nel mix. Simili problemi di chimica tra il rapper riccioluto e le basi create dal suo collaboratore si verificano in "Jack Harlow Combo Meal" (numero lounge che decolla solo quando entra JPEGMAFIA, il quale dà anche sfoggio delle sue doti canore in un non-ritornello tutto autotune), in "Shut Yo Bitch Ass Up" e nella coda del singolo di lancio "Lean Beef Patty".
JPEGMAFIA si sente decisamente più a suo agio sopra certi tappeti sonori, sfoderando flow d'ispirazione old-school in "Muddy Waters", domando l'incedere minaccioso della title-track (questa volta è d'obbligo chiamare in causa i Death Grips, per la vicinanza del sample vocale allo stile di MC Ride) e scatenando tutta la sua aggressività nei banger dell'album. Proprio questi coincidono con le interpretazioni migliori di Danny Brown. "Burfict!" ne è l'esempio più lampante: più che di un duetto si tratta di un ludo gladiatorio orchestrato al bacio, in cui Brown e Hendricks si scambiano rime faccia a faccia, annunciati da grandiose strombazzate ed incitati da un pubblico nutrito.
La produzione ha occasione di brillare soprattutto nei brani con una struttura solida e definita. "Steppa Pig" (ennesimo titolo demenziale), vero acuto dell'album, si prende il suo tempo, alternando sezioni perfettamente interconnesse e mostrando tutto il potenziale pop della produzione di JPEGMAFIA. Pur in un progetto teso a "spaventare le t***e", in un mare di assurdità – una su tutte, il jumpscare "telematico" di "Orange Juice Jones" – emerge una sensibilità melodica fuori dal comune, in grado di rendere accessibile a molti l'opera.
Cinque stelle sono al limite della provocazione, visti certi evidenti difetti di mixing e la totale assenza di coerenza compositiva, ma "SCARING THE HOES" è un quadretto dionisiaco di rara vivacità, l'album di hip-hop sperimentale di cui aveva bisogno una scena (per estensione, vista la popolarità degli autori di quest'opera) mainstream che – salvo sparuti nomi ben noti – da anni troppo spesso guarda all'esterno per cercare ispirazione e cade nella trappola delle mode. Per ora, album dell'anno per distacco.
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