Ci risiamo... Siamo alle solite... Mannaggia...
Alcuni accusano i rockettari (in generale) e i metallari (nello specifico) di essere poco propensi ai cambiamenti, di non essere di ampie vedute e di essere affetti dalla sindrome del: “se cambi modo di suonare ti sputo sul cd”... Via allora con le epiche battaglie tra i difensori (della fede???) dell’immobilità sonora (o al massimo della “prevedibile evoluzione”) e i fans della buona musica, qualunque essa sia.
È facile constatare come queste battaglie non si verifichino soltanto ai giorni nostri, ma abbiano contraddistinto tutta la storia della musica (dal prog al rock, dal blues al metal etc...).
Insomma... Tutti, se si discostano dal proprio standar musicale, ricevono molte più critiche che elogi... Tutti... Nessuno escluso.
A trovarsi in questa situazione sono stati, nell’ormai dimenticato 1981, i mitici Judas Priest con una mossa tanto imprevedibile quanto coraggiosa: pubblicare, dopo svariati album che diedero i natali all’Heavy Metal, un album rock (e più precisamente Rock’n’Roll oriented, con lievissime reminescenze Metal) dal “roccioso” titolo di Point Of Entry.
Cerchiamo di non essere fraintesi: i Judas Priest, sin dal loro debutto nel lontano 1974 (e fino al precedente e ottimo British Steel), non hanno mai nascosto la loro passione per il Rock-Blues e per certe sonorità Doom-Rock prese in prestito dal Sabba Nero (e dai Blue Oyster Cult) per essere rielaborate con chirurgica precisione... Non è possibile, però, non constatare, nell’arco degli anni, una tendenza (mai interrotta) verso un indurimento (lento ma costante) del suono che da Sad Wings Of Destiny a British Steel aveva contraddistinto la produzione dei Priest.
Con Point of Entry, invece, i Preti di Giuda interrompono, per il mio modo di vedere, questa tendenza (che aveva avuto la sua massima espressione con il magnifico, e sopraccitato, British Steel) e virano (inspiegabilmente) verso lo sviluppo completo delle sonorità morbide e riflessive già presenti nella loro musica (senza perdere però il classico piglio aggressivo e “ribelle”). È come se i nostri affezionatissimi si fossero trovati a dover decidere tra la strada che avrebbe portato allo sviluppo della parte più dura e potente del loro sound e quella che avrebbe portato ad un godibilissimo rilassamento Blues-Rockeggiante, scegliendo quest’ultima.
Non fraintendiamo però... Proprio per quanto fatto precedentemente dal gruppo, l’album suona Priest al 100% e tutte le caratteristiche del gruppo sono in evidenza (voce inimitabilmente potente, chitarre “duellanti”, basso pulsante, anche se un po’ sottotono e batteria quadrata e in primo piano), solamente si rimane sorpresi dalla “irregolarità stilistica” di questo lavoro rispetto ai precedenti.
Arriviamo al punto...
Per voi come venne giudicato dagli irriducibili Metal-Kids?
Sì ... Proprio come pensate... Fu un fiasco da “frigorifero in Alaska”... I critici fecero a gara per stroncare l’album nel modo più brutale e molti fan dei Priest decisero benevolmente di ignorarne l’uscita.
Gli unici che presero posizioni ben precise furono:
-I Detrattori, paladini dell’irriducibile e immutabile (nonché statica) fede rock-metallica, che accusarono il gruppo di alto tradimento.
-Gli Svacconi (detti anche “persone che non rompono i co....ni”), che accettarono l’album per quello che era... Un eccellente lavoro di Rock dalle pallidissime tinte Metal (perché sempre dei Judas Priest si parla).
-I Miopi, che non volevano rendersi conto della diversa scelta sonora e giustificavano il tutto con un rassicurante: “calo d’ispirazione compositiva”.
Personalmente, anche se di un’altra generazione, appartengo alla seconda schiera e ritengo questo Point of Entry un lavoro eccellente e godibilissimo in ogni sua parte. Peccato che, ancora oggi, nessuno lo consideri tale.
Questo è un album che sa dare grandi soddisfazioni se si capisce in che modo va ascoltato.
La sua bellezza si nasconde dietro a sonorità di chitarre quasi svogliate, che in realtà disegnano capitoli suadenti e convincenti come non mai (“Heading Out To The Highway”), si cela nel bel mezzo di agitazioni distorte in momenti che hanno ben più da spartire con il Blues e con il Rock’n’Roll che non con il Metal (“You Say Yes” e “Troubleshooter”).
Ma la bellezza di questo lavoro sa parlare anche attraverso la durezza di note quadrate e taglienti che molto devono all’Hard Rock anni settanta (“Hot Rockin’”, “All The Way” e “On The Run”), o accogliendoti in atmosfere tese e sensuali ma che a tratti confinano con un’ingenua giocosità (“Don’t Go” e "Turning Circles”).
C’è spazio anche per veri e propri capolavori di Rock pericolosamente in bilico tra l’Hard settantiano e il Metal che verrà ( l’enorme “Desert Plains” e la stessa “Heading Out To The Highway”).
Ma quello che sorprende è l’incredibile e costante “solarità festosa”, che oserei definire “da spiaggia”, che pervade moltissimi momenti dell’album (forse perché il tutto è stato registrato ad Ibiza tra un’ubriacatura e l’altra), tranne forse nella maligna e sabbathiana tranquillità di “Solar Angels” (canzone tanto bella quanto fuori posto).
Tutti i membri si comportano, come loro solito, in maniera ineccepibile, creando un tappeto di note e di sensazioni che mai era stato così morbido, rilassato e arioso come in questo album (e mai più lo sarà).
Un plauso particolare va alla strabiliante impostazione vocale di Rob Halford che in questo Point of Entry ci dona una prestazione davvero coinvolgente e che mette in luce la sua ottima capacità interpretativa: una sintesi tra disperato abbandono, tagliente potenza e beata spensieratezza.
Insomma... Un album strano... Un lavoro che ha fatto storcere il naso a molti e che, proprio per l’insuccesso che ha riportato, ha “costretto” i Priest a tornare (visto con il senno del poi, “fortunatamente”) verso sonorità più marcatamente metalliche, sfornando, l’anno successivo, quel capolavoro che risponde al nome di Screaming For Vengeance, e abbandonando definitivamente le (buonissime) sperimentazioni Rock-Blues che arricchivano Point of Entry.
Un album incompreso, che molti “puristi” preferiscono non ricordare, ma che presenta ottimi spunti e altrettanto ottime canzoni. Un album che ha avuto la sua massima sfortuna nell’uscire in mezzo a due abbaglianti capolavori dei Priest (i sopraccitati British Steel e Screaming For Vengeance) e contemporaneamente al mostro Maideniano Killers, e che per questo è quasi sempre stato considerato un lavoro poco ispirato o di transizione. Un album che, però, se ascoltato per quello che è, può regalare un’ora di ottima e godibilissima musica Rock.
Ascoltatelo senza pregiudizi... Ne resterete sorpresi.
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