Birmingham, 1976.
Un gruppo di giovani operai decide di uscire dall’oscurità della british working class, e per farlo incide per una piccola etichetta, la Gull, un disco in cui sfogano tutti i loro sogni e le loro frustrazioni, ben lontani dal nascende punk, e anzi marcandone la differenza, ispirandosi a grandi come Dylan ed Hendrix. I ragazzi non saranno minimamente ricompensati del successo, e romperanno il loro contratto con l’etichetta, spalleggiati da una major (Columbia/CBS) che ne riconosce il talento e li vuole nella loro scuderia.
Raccontata così, suona come la sceneggiatura di un film. In effetti, è molto di più: è il primo vagito dell’heavy metal, filone destinato a conoscere momenti di grande gloria e immortale vigore.
I nostri (Rob Halford, voce: K.K. Downing, Chitarra; Glenn Tipton, chitarra; Ian Hill: Basso) dapprima escludono l’incapace Alan Moore, responsabile dei delitti compiuti alla batteria sul precedente "Sad Wings Of Destiny"; poi piazzano dietro le pelli un certo Simon Phillips (Poi Toto, Oldfield, Beck, Brian Eno, Jagger, The Who, Pete Townshend, Michael Schenker Group): infine si affidano ad un produttore, proposto loro dalla nuova etichetta, di una qualche esperienza (tal Roger Glover dei Deep Purple, per capirci).
È raro che al mondo si crei una combinazione di fattori tanto fortunata. Il talento dei Priest (giovani, sì, ma già di grande esperienza) con il sapere di Glover, la bravura stratosferica di Phillips, i mezzi della CBS: il successo non poteva non arrivare.
E infatti arriva. All’uscita dell’album, Sin After Sin raggiunge la 23esima posizione nel Regno Unito, e vende discretamente in tutta l’orbita anglosassone. Ma fa di più: crea un mito. Sono gli anni del cambiamento, per i Priest: si inizia con il look tutto pelle e borchie, clonato poi per decenni da migliaia di altri gruppi.
Una piccola precisazione: nel 1977 il massimo della fedeltà era il giradischi (come oggi, del resto), e gli album erano registrati per quelli. Se davvero volete sentire come suonava allora, mettete su il disco, è un’altra storia. Lo troverete, a prezzi relativamente accessibili, nei mercatini ben forniti. Vi basterà metterlo su e confrontarlo con altre produzioni dell’epoca per capire che voleva dire suonare metal nel ‘77.
“Sinner” è un hard rock veloce, ma complesso abbastanza per evidenziare l’influenza del progressive anglosassone. Il lavoro di chitarra è superlativo, sia nell’accompagnamento che nell’assolo centrale, esaltato ancora di più nel live. Il suono è chiaramente influenzato da Glover, e questo è un bene nell’evoluzione del Priest sound; i nostri dimostrano subito di essere oscuri e taglienti come nessuno mai prima, mai trascurando un amore per la melodia che li rende, tutto sommato, accessibili ed eleganti. I quasi sette minuti di “Sinner” scorrono veloci e potenti, senza un attimo di cedimento, e ci accompagnano verso una cover di Joan Baez, “Diamonds And Rust”, ottimamente reinterpretata, che otterrà anche un ottimo successo commerciale. “Starbreaker”, che segue, ribadisce il canone del quartetto inglese: grinta, riff pesanti, affilati assoli e scambi centrali, screaming inconfondibile. Un pezzo maiuscolo, che dal vivo – purtroppo per pochi anni – rivelerà una potenza inaudita, trainato da un Halford sempre sopra le righe.
Tutto l’album, nonostante i passaggi cupi e rabbiosi, è pervaso di un romanticismo visionario e sognante. Per cui non stupiscono una ballad come “Last Rose Of Summer”, abbastanza banale e ‘70s per la verità, e neanche l’apertura di “Let Us Prey/Call For The Priest”, molto british, che ti illude per un attimo di aver messo su un disco dei Queen prima di travolgerti con il suo ritmo sfrenato, chiara sorgente d’ispirazione per gli esordienti Motorhead. “Raw Deal” parte come un bel mid-tempo in stile Sabbath, pesante e malinconico, per poi accelerare nella parte finale e svelare la sua anima più esplicitamente metal; “Here Come The Tears”, una nuova ballata struggente e disperata. Ma è con “Dissident Aggressor”, traccia conclusiva, che i Priest tornano a graffiare. Cosa dire di questo pezzo che non sia stato già detto dalla Storia? Un crescendo di batteria e distorsione che culmina in un urlo terrificante, per poi procedere con un riff pesantissimo e un tappeto di percussioni come al solito veloce, rabbioso e ricercato, per il pezzo puramente “metal” nel senso che la parola ancora oggi conserva. Provate a confrontare l’originale, magari live, con la cover degli Slayer dell’88…
Sin After Sin non è la massima opera dei Judas Priest, né del metal in generale. Non è l’album più brillante e innovativo delle midlands inglesi. Non è zeppo di brani leggendari come il precedente “Sad Wings Of Destiny”, né dispone del carisma del successivo “Stained Class”. È, semplicemente e grandiosamente, un mattone di quel tempio che noi fedeli chiamiamo Metal e che, con una ispirazione profetica, è disegnato sulla copertina del disco. Un mattone di un movimento che per almeno altri vent’anni avrà tanto da dire alla musica e al mondo intero, posato da chi quel tempio non si è limitato a progettarlo, ma l’ha eretto.
Carico i commenti... con calma