Secondo i dizionari, per classico si intende ciò che costituisce “un modello esemplare”, o, con riferimento alle formalizzazioni di una teoria o di uno stile, la sua “sistematizzazione” anche in contrapposizione a indirizzi più moderni.
Credo sia l’aggettivo che meglio si attaglia al quarto album ufficiale dei Judas Priest, le cui canzoni hanno per la prima volta definito le caratteristiche dell’heavy metal, già abbozzate nei precedenti lavori del quintetto di Birmingham, come Sad Wings of Destiny e Sin After Sin: è in quest’album che le intuizioni dei precedenti trovano la perfetta sintesi formale e l’eleganza compositiva che caratterizzerà il gruppo per il resto della propria carriera, e che vengono codificate, sul piano prettamente estetico ed iconografico, le linee salienti dell’heavy metal. Basti osservare la copertina riprodotta a fianco: indecifrabile, aliena nella sua modernità, ed al contempo legata alla tradizione per la posa di tre quarti che assume la testa del soggetto rappresentato, come nelle migliori sculture dall’antica Grecia.
L’importanza di Stained Class per la carriera dei Priest non è, del resto, concepibile su un piano strettamente musicale, ove si rammenti come l’album abbia acquisito, dalla metà degli anni ’80, una fama sulfurea, per essere al centro del suicidio di due fan statunitensi del gruppo, a causa dei pretesi messaggi subliminali contenuti fra i solchi dell’album: va detto che la Corte investita della controversia, nella quale furono imputati gli stessi membri del gruppo per istigazione al suicidio, si concluse con l’assoluzione dei Priest, comunque segnati da quella vicenda umana e processuale. Ciò non toglie che su internet, anche su siti italiani, fioriscano continuamente leggende su SC e sul contenuto dei suoi brani, caratterizzate da logiche per lo più speculative sulle quali è meglio soprassedere.
Sia per contenuto che per forma, Stained Class cristallizza il linguaggio metal che verrà successivamente rivisitato da miriadi di gruppi inglesi ed americani a cavallo degli anni ’70 ed ’80: chitarre taglienti con interscambi solistici, sezione ritmica quadrata anche se non particolarmente inventiva, sempre a servizio dei riff prodotti dai due axemen, e, su tutti, lo stagliarsi della voce di Rob Halford, ora declamatoria, ora più violenta. Rispetto al coevo Killing Machine, di qualche mese successivo, SC taglia recisamente i ponti con l’hard blues delle origini, accelera i ritmi e semplifica gli arrangiamenti, compattando notevolmente i brani. I testi, con riferimenti al medioevo, alle presenze aliene, alle esperienze extrasensoriali, colorano le musiche di un’aurea maudit, senza sovrastrutture o messaggi da lanciare, all’insegna di un linguaggio autoreferenziale e privo di riferimenti culturali che sono il limite stesso della proposta musicale dei Priest (analogamente ai Black Sabbath e a differenza dei Blue Öyster Cult).
Venendo al contenuto dei singoli pezzi, l’album si apre con il classico Exciter, con arrangiamenti ridotti all’osso e la voce di Halford che raggiunge vette inaudita, dando senso di claustrofobia e rabbia (non a caso uno dei gruppi più influenti dei primi anni ’80 prenderà nome da questo brano); segue l’altrettanto stordente White Heat, Red Hot, con un ritornello spezzato e martellante, che aumenta i battiti cardiaci dell’ascoltatore, con effetti quasi disturbanti. La terza traccia, Better By You, Better Than Me – cover degli Spooky Tooth – vira su un rock magari più ordinario, ma orecchiabile ed incalzante che ben contrasta con i pezzi che precedono, grazie ad un Halford in grande spolvero. La titletrack, dalle soluzioni ritmiche più raffinate, specie nella progressione armonica che porta al ritornello, è uno dei pezzi più riusciti dell’album, anche nel testo, senza nulla perdere in impatto emotivo e durezza del suono. Il terzetto rappresentato da Invader, Saints in Hell e Savage va considerato unitariamente, trattandosi di pezzi dell’andamento similare, estremamente tesi nella strofa ed esplosivi nei ritornelli, in un perfetto connubio fra grinta esecutiva e melodia che appare come il lascito fondamentale del gruppo a favore della nascente NWOBHM. La successiva Beyond the Realms of Death, scritta dal batterista Les Binks, è il cuore emotivo dell’album, sterzando verso un dark sound memore della lezione Sabbath e simile ad alcuni pezzi di Sad Wings of Destiny, anche se caratterizzato da una maggior coesione ritmica ed efficace sintesi sonora: al di là degli aspetti prettamente musicali, si tratta di un pezzo che comunica all’ascoltatore un senso di autentico disagio ed inquietudine. La conclusiva Heroes End, con una bella ritmica, compendia al meglio lo stile del gruppo nella prima parte del ’78, unendo i toni indiavolati del cantante agli sferraglianti riff delle chitarre di Downing e Tipton, ben adiuvati dal basso di Ian Hill.
Album da avere, senza meravigliarsi se alla fine dell’ascolto si sarà pervasi da una certa ansietà… ma it’s only heavy metal.
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