Raramente mi capita di scrivere di musicisti italiani. Questo succede perché sono generalmente molto poco interessato a quello che succede entro i nostri confini dal punto di vista musicale. La sensazione generale è che ci sia una scena florida di una determinata tipologia di cantautori e una certa estetica indie che sono oggi prevalenti e che comunque valga in ogni caso un certo principio di autoreferenzialità. Tutto funziona effettivamente come un vero e proprio circuito chiuso e in cui tutte le parti in causa, musicisti, etichette, addetti ai lavori, fanno fronte comune per tenere in piedi la barracca.

Allo stesso modo è chiaramene innegabile che anche all'interno del nostro panorama musicale vi siano delle eccezioni e artisti che sono particolarmente validi e in particolare musicisti che abbiano quel determinato coraggio di volgere lo sguardo al di là dei nostri confini e provare a proporre qualche cosa di diverso. Sonic Jesus, New Candys, Father Murphy, più di recente i Gluts sono band che negli ultimi anni hanno ottenuto una certa attenzione e riguardo probabilmente più all'estero che nel nostro paese, pubblicando variamente per etichette straniere che hanno voluto accogliere queste realtà nel loro roster. Tra queste, la Fuzz Club Records che in questa occasione ci propone un LP dei JuJu, progetto solista del musicista siciliano Gioele Valenti (già noto come Herself e per essere parte de i Lay Llamas) e intitolato 'Our Mother Was A Plant'.

La collaborazione tra Valenti e la Fuzz Club Records ovviamente non nasce in maniera causale: le sonorità del disco sono in effetti attinenti a un determinato tipo di sound proposto negli ultimi anni dall'etichetta e quelle che sono stati alcuni sviluppi nella neo-psichedelia europea. Ci troviamo davanti a una progetto particolarmente ambizioso e dove Valenti mira a fondere assieme determinate sonorità ossessive psichedeliche e un certo folklore etnico oltre che quello che può considerarsi a tutti gli effetti come un groove di marca black-music e che guarda a episodi degli anni settanta come Sly Stone & The Family Band oppure Parliament/Funkadelic. Un riferimento che si può cogliere anche dalla immagine di copertina che è evidentemente intrisa di 'black power'.

Il disco si apre con 'Death By Beautiful Things', una lunga session dalla durata di quasi sette minuti e caratterizzata dalla ripetizione ossessiva dello stesso loop di basso secondo degli schemi tipici del kraut-rock e sul quale si alternano chitarre acide e atmosfere visionarie pregne di sciamanesimo come nelle esperienze di Dead Skeletons e Goat. Proprio questi ultimi sono non a caso uno dei principali riferimenti: uno dei componenti della band, infatti, il percussionista mascherato Capra Informis, prende parte alle registrazioni del disco collaborando in due occasioni. 'In A Ghetto', una traccia dominata dal suono ossessivo del basso e della chitarre e che si traduce in una esplosione colorata di suoni che lascia immaginare danze tribali e in cui i ballerini si muovono freneticamente tutti allineati e indossando delle gigantesche e spaventose maschere; 'Sunny After Moon', che si apre praticamente come un pezzo dei Pink Floyd di Syd Barrett ('Lucifer Sam') per poi aprirsi in un piccolo quadro di tribalismo kraut dancereccio.

'And Play A Game' ripropone nella sezione ritmica certe pulsazioni tipicamente kraut: le chitarre suonano in perfetto stile Amon Duul II e nel finale fanno breccia nella parete di suono suggestioni psichedeliche anni sessanta e un certo mantra Dead Skeletons.

'James Dean' è uno degli episodi meglio riusciti del disco, forse - va detto - anche perché è uno di quelli in cui Valenti osa di meno, affidandosi alla proposta di un kraut monolitico e potente nello stile di Wooden Shjips e caratterizzato da determinate sfumature wave come nella tradizione Fuzz Club.

'I Got You Soul' e 'Patrick' al contrario sono forse gli episodi più ambiziosi e dove la batteria e il basso sono caratterizati da un groove tipicamente funk e acido con la prima composizione che può ricordare dei Primus più primitivi, mentre la seconda vede una mescolanza del sound a una certa trance electronica e chitarre elettriche acidissime che ripropongono atmosfere da colonna sonora dei film d'azione tipiche degli anni ottanta-novanta. Uno stile quasi patinato e che viene proposto anche nella lunghissima session di 'What A Bad Day', il cui giro di basso sembra essere praticamente lo stesso della famosa hit dei Queen 'Another One Bites The Dust' e il suono è qua e là inframezzato da riverberi, eco lontane di cori tribali, moduli sintetizzati e ancora chitarre elettriche acide anni settanta e nello stile Amon Duul II.

'Our Mother Was A Plant' è in definitiva un disco che merita sicuramente di essere ascoltato per la ricchezza di idee che Gioele Valenti ci propone all'interno di un lavoro che nel suo complesso non riesce sicuramente appieno nei suoi intenti: i riferimenti alla black music e al funk in generale, così come a un certo jazz sperimentale e intellettuale nello stile di Heliocentrics, rimangono una incompiuta. M sebbene si tratti di un lavoro riuscito a metà, le sonorità sono comunque avvolgenti e caratterizzate da un certo groove che piacerà sicuramente agli ascoltatori di Goat, Moon Duo, Follakzoid, che potrebbero a questo punto anche arrivare a considerarlo come uno dei loro dischi dell'anno.

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