Prima di dire qualsiasi cosa sul nuovo lavoro di Julia Holter vanno spese due parole sul contesto in cui questo “Ekstasis” si inserisce. Innanzitutto pur essendo la sua seconda uscita (“Tragedy” è del 2011) può considerarsi come la quarta-quinta uscita ufficiale dell’artista nordamericana. Tutto questo tenendo fermo che aveva messo mano al materiale a partire dal 2008 e, vista la qualità offerta, non è di poca rilevanza la quantità di brani composti in poco più di un triennio. Questo nuovo lavoro, infatti, è stato composto quasi in contemporanea con il precedente e, vuoi anche per la palese ripresa di “Goddess Eyes”, non è difficile riscontrarne molte affinità. Certo, oltre alla mole di lavoro prodotto, a stupire è, più che altro, la cura nella composizione e negli arrangiamenti che impreziosiscono il suo songwriting. Alle volte si può avere l’impressione di sfociare in un intellettualismo fine a se stesso (“Tragedy” prendeva spunto da alcuni passi di Euripide) ma all’ennesimo ascolto ogni elemento sembra ritrovarsi nella propria collocazione naturale.

Tutto questo discorso serve a evidenziare come l’Hype creatosi attorno a questa uscita, per una volta tanto, non assecondava proposte di dubbio gusto ma premiava un’artista la cui vena prolifica è stata più volte baciata da un’ispirazione senza pari. Questo “Ekstasis” riprende il discorso iniziato nell’album precedente (ricordo: uscito solo 5 mesi prima), ne rielabora le atmosfere esplorando sentieri in parte già tracciati, ma, in ogni caso, sempre cercando di sviluppare e migliorare ulteriormente le possibilità di questo sound. La formula di questo lavoro poggia principalmente su un uso molto elegante del duo voce-sintetizzatore. Aristocratico: sarebbe questo il termine adatto a rendere l’idea.

La voce della Holter ammalia e si muove preferibilmente su basi dilatate, usufruendo di riverberi ed echi che ne accentuano corposità e volume. L’uso di questi filtri raramente è invasivo (eccezion fatta per il vocoder di “Goddess Eyes I”) e tende a dare l’idea di una voce che, più che intenta ad esprimere un preciso messaggio, aspira a farsi strumento sulla scia di tastiere dai toni ambient-dreampop. Inutile dire che, tenendo ferme queste premesse, i paragoni con le altre voci femminili si sono sprecati. In primis questa sua capacità di dialogare con tastiere, archi e filtri di vario genere ha richiamato a molti quanto di meglio Laurie Anderson ha prodotto. Basterebbe solo questo a dare garanzia del materiale proposto in quest’album. Ma anche le composizioni di Fiona Apple o Joanna Newsom (specie nel suo ultimo album) sono state usate come termine di paragone.

Va ricordato che la sperimentazione proposta dalla Holter, ad esempio sulle possibilità date dal suo canto o sui frequenti cambi di registro, potrebbe risultare, ad un primo ascolto, un semplice esercizio di stile. Al contrario, seguendo più e più volte l’esecuzione dei brani tutto (o quasi) sembra trovare un proprio ordine. Si prenda l’iniziale “Marienbad”: il ritmo cadenzato che accompagna il brano viene sovrastato da una “cassa dritta” e da spettrali loop vocali per poi rifluire in un incedere quasi marziale. Ai più potrebbe sembrare ai limiti del pleonastico, eppure stranamente funziona. La tracklist è stata indubbiamente ben studiata: a brani dilatati ed eterei vengono accostati, in maniera altalenante, pezzi più radio-frendly e tirati (relativamente allo stile della Holter). Proprio per questo motivo prima di addentrarci negli 8 minuti dell’eterea e spettrale “Boy in the Moon” veniamo introdotti da quel gioiello da quattro minuti che risponde al nome di “In the same Room” (scelto come singolo). Ogni pezzo dell’album ha il suo quid che ne giustifica l’inclusione; si potrebbe citare la scaletta seguendo tutti e dieci i titoli. È un peccato non usufruire di questo lavoroe non lasciarsi trasportare dal carillon pseudonipponico di “Für Felix”, o distendersi sulle lande disegnate da “Our Sorrows”, oppure farsi sedurre dall’indianeggiante “Four Gardens”….

Ma quello che sembra il vero e proprio apice dell’album è la conclusiva “This is Ekstasis”. Con i suoi nove minuti è la traccia più lunga e sembra, già con quel titolo programmatico, voler svelare appieno la natura profonda di questo lavoro. Effettivamente è un buon riassunto di tutto ciò che abbiamo sentito nei nove brani precedenti, ma, allo stesso tempo, ne prospetta quasi un ampliamento ed una ulteriore modificazione. È difficile dire di quanti movimenti si componga quest’ultima composizione (trame lasciate indietro riaffiorano e poi svaniscono in maniera del tutto inaspettata). A dare un tocco ulteriore a questo brano sono i secondi in coda in cui archi e fiati sembrano parlare linguaggi alieni tra loro. Certamente un rischio presentare una traccia di questo tipo. Potrebbe risultare pretenziosa e di difficile digestione. Forse è proprio per questo che viene posta a chiusura dell’album: se si riesce, boccone dopo boccone, a metabolizzare le 9 tracce che la precedono si è pronti a esporsi a questi nove minuti di messaggio celeste… In questi, oramai, 2/3 del 2012 è, senza dubbio, uno dei momenti di maggior rilievo.

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