Un po' me la tiro. La biblioteca, per una persona non istruita come me è il posto ideale. Più che altro per sentirmi amato, o semplicemente preso in considerazione, è una malattia, ne sono cosciente. Un complesso che mi porto appresso da più o meno da quando ho incominciato a prendere memoria di star camminando sulla crosta più dimenticata del globo, di dover far parte di una collettività che da più di vent'anni sembra non apprezzarmi. Quando mi accorgo di questo particolare finisco per ricordarmi come minimo tutti i momenti più imbarazzanti della mia vita. Ricordo di una ragazza, uno dei miei infiniti insuccessi, rispondermi riguardo a questo dilemma. "Questo ti dimostra che le persone sono cattive". Ho finito per insistere anche con lei. La biblioteca è il posto per dimenticare; entrare e chiedere di Henry Miller, sentirmi dire dalla bibliotecaria "ma con questo Foster Wallace ci sei in fissa, li hai letti tutti ormai, ci stai facendo una tesi?" e rispondere innocentemente "uhm, no, mi piace solo come scrive", girare per i reparti con qualcosa di Jonathan Franzen o di Jeffrey Eugenides. Per me è una consolazione. Mi piace scherzarci su, ironizzarci di tanto in tanto, specialmente quando me ne esco con stronzate del tipo "su Kerouac la penso come Truman Capote" etc.. Poi mi azzittisco, ricordo del motivo per cui mi comporto così. Mi metto ad un angolino, sto zitto. "Sto parlando troppo. Scusami, dimmi tutto." Non biasimerei chi mi odia per questo.

Alcune volte capita di leggere qualcosa che può cambiarti senza che tu te ne accorga, ci sono romanzi che leggi e pensi a quale centinaia di cose più divertenti potresti fare e ce ne sono altri dove finisci per chiederti cosa farai dopo averli letti. Ci sono romanzi che ti somigliano, ti consolano senza che tu riesca a capirne effettivamente il perché. Irresistibile, disturbante, commovente. Questo La favolosa breve vita di Oscar Wao è la magnificenza, la terra redenta, il fiume d'oro per i disadattati. E' prima romanzo di vita e poi romanzo esoterico. Tutti i codici del post-modernismo letterario e del realismo magico sono stravolti, esasperati e scomodati per descrivere al meglio una realtà che ritorna costantemente nel più sincero, ridicolo dramma domestico. E' la cronologia di una maledizione (del fukù) che tormenta le terre roventi di una Santo Domingo brutale e di una New Jersey schifosamente vicina al superficiale, che finiscono col dimenticare crudelmente quanto sia degna di compassione la storia di un reietto, di un dominato di prim'ordine alla ricerca della sua inebriante luce di libertà, mangiandone la carne, dilaniando ogni suo nervo più sensibile. Dimenticate George Saunders, non si ironizza in nessuna pagina dell'opera principale di Junot Diaz per ridere di gusto, ma per ridere amaramente, con misericordioso, dolce, contraddittorio scherno. Dimenticate anche Zadie Smith, qui non c'è l'ombra di un'accurata analisi sociale con risvolti frivoli, quotidiani. Sulla quotidianità non si risparmia nessun particolare per ridicolizzare il personaggio chiave di un romanzo che ne analizza sapientemente le evoluzioni, i suoi insuccessi, oscillando sapientemente da punti di vista mobili (quello della sorella di Oscar, e quello Yunior, amico scopatore di Oscar e alter ego dell'autore dell'opera stessa) ed epoche diverse (la repubblica dominicana sotto il regime di Trujillo, i trascorsi della famiglia di Oscar composta da soggetti martirizzati) nella cui oscurità brillano lontane luci sacrali, scaramanzie esotiche. Far sì che una platea derida della vita di un disastro umano per poi finire col commuoversene è un'impresa dannatamente difficile. Questo probabilmente è uno dei più brillanti esempi di come tale impresa può essere raggiunta, di come la coscienza ordinaria possa essere smossa solamente toccandone il cuore. Magnificamente irripetibile.

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