Questo ragazzo nato in Nashville in Tennessee nel 1982 è ancora relativamente giovane, ma arriva a questo disco dopo un cammino lunghissimo, con il gravoso compito, peraltro nell'anno dei cinquanta anni di Woodstock, di mettere assieme l'ultimo mezzo secolo della storia della musica americana.
Justin Townes Earle è il figlio di Steve Earle, una delle figure storiche nella musica folk e country americana "contro". Il suo middle-name fa chiaramente riferimento a Townes Van Zandt e da bambino passa la sua infanzia con la madre nel Tennesee oppure in giro con il padre, con il quale comincia a suonare per gli Stati Uniti già da giovanissimo e nello stesso periodo in cui comincia, così come era successo a suo padre prima di lui, comincia a fare uso di droghe.
Questo stile di vita border-line lo accompagnerà per lunga parte della sua esistenza e fino al 2010, quando finisce dentro dopo una rissa in un club di Indianapolis. L'episodio in qualche maniera segna una linea di confine nel corso della sua esistenza: Steve smette con le droghe e comincia una nuova fase della sua storia artistica. Il suo disco del 2012, "Nothing's Gonna Change the Way You Feel About Me Now", fu un successo, ricordo che se ne parlò moltissimo anche qui in Italia a suo tempo. Per il resto le sue produzioni discografiche hanno continuato a essere buone, dimostrando che evidentemente in qualche modo questo ragazzo aveva tutte le carte in regola per "superare" la ingombrante e complessa figura paterna e che del resto come un fantasma aleggia all'interno del suo micro-cosmo con riferimenti evidenti.
"The Saint Of Lost Causes" (New West Records) segna però una nuova fase nella storia artistica e personale di Justin. È l'album infatti dove invece che superare il padre, egli sembra quasi ricercare un punto di incontro e di incamminarsi, a suo modo, lungo la sua stessa strada. Smette con i riferimenti alla sua vita personale e assume il ruolo di uno scrittore di canzoni consapevole e immerso appieno nella realtà contemporanea degli Stati Uniti d'America.
Il disco scava nella realtà sociale degli USA e affronta cause ambientali, la gentrificazione e il degrado in larghe aree del paese, in una maniera personale tipica dei grandi cantautori americani, con riferimenti che qui possiamo ricercare da Bob Dylan ("Don't Drink The Water") a Bruce Springsteen ("Frightened By The Sound"), a Johnny Cash ("Flint City Shake It"). Tra l'honky-tonky blues di "Ain't Got No Money", "Pacific Northwestern Blues", "Say Baby", emerge però nel mucchio una scrittura sensibile che potremmo avvicinare a quella di Willy Vlautin e nei casi più solenni, una vicinanza allo stile di Bonnie "Prince" Billy. Significativo tra tutti i pezzi proprio "Ahi Esta Mi Nina", chiaramente riferita al padre ma in fondo proprio quel pezzo che ricerca in maniera simmetrica, di richiamare a quel collante che gli Stati Uniti d'America di questi anni sembrano avere smarrito.
Un paese ricco di contraddizioni, ma che è comunque sempre stato il faro del mondo occidentale e che adesso si sta chiudendo in se stesso innalzando dei muri, rinnegando i propri ideali e consumandosi così in quella che diventa una miseria umana e degrado. Il Cristo Pantocratore della copertina ammonisce e invita a una severa riflessione, ma trasmette in fondo (a dispetto del titolo) un messaggio di speranza e di fiducia che Justin qui invita a perseguire.
Carico i commenti... con calma