L’amore può rivelarsi (auto)distruttivo, quando realizza che la dedizione e gli sforzi per comunicare sono diventati vani. Le ossessioni danno il cervello in pasto alla paranoia più divorante, il sesso diventa il quarto d’ora dedicato alla pantomima, alla rappresentazione di qualcosa che funziona, per mascherare l’ assenza del coraggio necessario ai titoli di coda. Uno dei modi più bizzarri di prenderci in giro da soli che ci siano stati trasmessi.
Un amore a distanza, in cui la potenza corrosiva del rimuginare può ammorbare ciò che, fessacchiotto, pensavi non sarebbe finito perché era troppo di tutto per svelare subito ciò che celava, è, se non sbaglio, il tema di “Delphine”, uno degli apici di questo disco. Laddove una delle due parti non si capacita della possibilità che l’oggetto del proprio amore (o “amore”) quel coraggio di cui sopra lo trovi.
Ne conseguono panico, rabbia e un’incredulità che potrebbe indurre a chiedere: “Delphine, cosa significa questa lettera? È un addio o solo un modo strano di dirmi ciao? So esattamente dove sei, Delphine. Tu sei con me; mi appartieni”.
Questa deriva ossessiva di un sentimento ci viene offerta dalla splendida voce di Kadhja Bonet, che con un arrangiamento minimale, un sintetizzatore che spruzza presagi sotto un’esposizione di basso fatto di gomma liquida ed una sparuta batteria, riesce a concepire un pezzo che, nella mia abissale ignoranza della vita e del mondo, mi azzardo a ritenere un classico.
Childqueen!
Ma che disco è?
Chi è questa Kadhja, a parte essere la sorellastra di Lisa Bonet?
Polistrumentista, produttrice autarchica i cui esordi risalgono ormai ad una decina d’anni fa, voce limpida e pura, mette la sua formazione accademica al servizio di un estro cangiante, di una curiosità febbrile e della ricerca della comprensione di sé attraverso la musica, suscitando immediata simpatia quando dichiara di non considerarsi una musicista, di non considerarsi un’artista.
Che, se consideriamo quanti sedicenti artisti soffocano e ammorbano i nostri tempi con la loro arte, è, se non altro, cosa rara da sentir dire.
Alla sua seconda uscita ufficiale, e prima sulla lunga distanza, questa donna azzecca Childqueen, un album di atipico soul da camera, se esiste, adatto a questa stagione umbratile, perfetto per stare soli a casa in una dimensione raccolta ed intima.
Quindi, “Delphine” evoca un certo tipo di desolato tarlo interiore con un lirismo delicato e vagamente sinistro; ma nell’arco di dieci pezzi c’è spazio per diverse sfumature di un soul psichedelico che, se non lo si sapesse relativamente recente (l’album è uscito a giugno del 2018) lo si giurerebbe lavoro sparato sulla terra nel 1972, dimenticato da tutti e riscoperto per caso da qualche archeologo insonne ed ossessionato dalla ricerca di oscure perle di una Motown parallela e...indie?
“Procession”, che si potrebbe anche definire marziale, per come procede a ritmo di un rullante suonato da un tamburino che odia essere invadente, apre l’album con la fierezza di chi ha realizzato che per migliorare se stessi è fondamentale il cambiamento, evolversi in armonia con ciò che ci circonda. Ce piaceresse che ogni mattino portasse una possibilità di rinnovamento, dott.ssa Bonet. E ti voglio pure bene per come ce la canti, questa possibilità
Non c’è mai troppa veemenza in questa musica, che è invece capace di avvolgere come una tazza di thé caldo (“Thoughts Around Tea” è il titolo di un altro delizioso bozzetto) se glielo si permette, e di trasportare in un attimo senza tempo, con una tutta sua compostezza, anche malinconica; dote difficilmente intrallazzabile da alcune sciacquette che si fregiano immeritatamente del titolo di queen of soul, magari de’noantri (seh, vabbe’).
Non voglio insinuare che la Bonet sia esente da qualche piccolissima pecca in fase compositiva, o che abbia partorito un disco che sarà ricordato nei decenni a venire (da me sì!). Ma è misuratissima, una roccia che non cede alla stucchevolezza. Ne esce immacolata, e ad un certo punto c’è questo pezzo fantastico, accidenti!
“Joy”
La voce di Kadhja che si moltiplica, e che sarebbe autosufficiente e fantastica già così, a cappella, ma che permette ad archi e flauto e a quel basso dal suono così vecchio e bello, di accompagnarla in un momento sospeso, mentre tante sé chiedono “dove vai?” alla gioia fugace ed inafferrabile, e pure a se stesse, concedendosi fluttuante surrealtà nelle armonizzazioni del finale.
Psichedelica, lo dico. E pure capolavoro.
“Mother Maybe” non avrebbe affatto fatto brutta figura nel repertorio di un soul man come Stevie Wonder tra Music of My Mind e Songs in the Key of Life, senza che ciò comporti paragoni, così come “...” si sarebbe adattata perfettamente alla vita segreta delle piante.
Queste ed altre cose belle attendono l’ascoltatore su Childqueen, la cui pasta sonora è abbastanza omogenea da farne un lavoro coerente ed organico senza risultare monocorde.
Un disco che può suonare vecchio o nuovo, e che suonerà nuovo o vecchio tra vent’anni, allo stesso modo.
La mamma tarda a regalare un fratellino a questa bimba regina, sebbene abbia lanciato segnali sotto forma di belle canzoni sparse, ma non sembra avere ansie di presenzialismo.
Ora è su Ninja Tune e collabora anche con Bonobo, ed ho voglia di ascoltare presto un nuovo album intero, perché siamo al cospetto di un’artista (chiedo scusa a Kadhja) di qualità superiore, ma ho anche l’impressione che fama e denaro non siano ciò che vuole dalla vita.
Scoprire questo scrigno che Kadhja ha costruito principalmente per sé è un privilegio ed un piccolo lusso, come un bicchiere di vino buono, un bong (prendimi il numero di targa) come si deve, un cognac, il sorriso di una piccola regina che ti guarda negli occhi.
V, my Childqueen is U
Finito senza troppa convinzione o ispirazione a 00:20 tra il 28 febbraio ed il 1° marzo 2025.
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