Il canovaccio che molti critici seguono con gruppi come i Kaiser Chiefs è di una monotonia quasi mortifera. Una blasonata rivista d’Oltremanica (New Musical Express oppure Melody Maker, ovvero riviste inclini ad incensare preventivamente molti gruppi debuttanti, salvo poi crocifiggerli al secondo disco) segnala questo o quel singolo, quando si ha la fortuna di avere effettivamente qualcosa tra la mani da poter ascoltare, additando il malcapitato gruppo di turno come futura stella del firmamento musicale internazionale. Per completare questa vera e propria truffa altri giornali musicali, anche qui in Italia, si accodano pedissequamente ai dettami britannici e cominciano a tessere le lodi di nuove schiere di imberbi e strafottenti fanciulli. Il più delle volte ci si nasconde dietro un diplomatico “non è niente di nuovo, ma sono bravi nel rielaborare”, fingendo di ignorare che la spiegazione è valida al più soltanto per il 10% dei gruppi creati (o meglio ancora “pompati” ) a tavolino dalle case discografiche.
Unica nota positiva: nel mercato musicale statunitense quello che a Napoli definirebbero “pacco” non funziona quasi mai. Neanche gli Oasis e i Blur, veri capofila della tanto chiacchierata “british invasion” (di cui in America nessuno si è ancora accorto) sono mai riusciti nell’impresa di sfondare veramente oltreoceano.
I Kaiser Chiefs sono meno interessanti della spiegazione che sta alla base del loro repentino successo. Un paio di singoli orecchiabili ("I Predict A Riot" e "Oh My God") sono ormai alla portata di chiunque. A voler essere generosi gli si può dare una risicata sufficienza ma in una classe di copioni, come appare l’attuale scena musicale inglese; i nostri cinque ragazzi da Leeds avranno ancora molto da imparare se vorranno pubblicare almeno un altro paio di dischi, prima di scomparire.
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