La scalata al successo dei Kamelot sembra essere inarrestabile e questo disco, "Ghost opera", nuovo entusiasmante capitolo della saga del combo americano, è qui per scansare ogni ombra di dubbio. La vedete questa copertina? Bella o brutta che sia, essa lascia presagire una virata verso certe tematiche gothic, in parte già intrapresa con il precedente "The black halo". Il presagio è tuttavia benaugurale: oggi non siamo più di fronte alla brava ma scontata band speed metal degli esordi, e nemmeno ad un ensemble di rapsodi medievali celati nella veste di power metaller come ai tempi di "Epica", ma ad un quintetto (il tastierista Oliver Palotai è entrato in pianta stabile nella line-up) che non ha più alcun timore nell'osare, nel mescolare con perfetta disinvoltura i generi metallici più in voga negli ultimi anni, rendendo più ricco il retaggio power del precedente lavoro attraverso magistrali contorni sinfonici, distorsioni vocali dal fervente sapore futuristico e vellutate sinuosità gotiche.
Non sarà forse il loro disco più bello, ma "Ghost opera" ha il buon gusto di stupire sia il fan che l'ascoltatore occasionale, di soggiogarlo nella sua rete maliziosa, di domarlo con passaggi orchestrali degni dei migliori act del genere. I virtuosismi di Thomas Youngblood alla chitarra sono una vecchia conoscenza e la limpida produzione di Sasha Paeth è come sempre efficace, ma la regista indiscussa di questa magniloquente opera rimane pur sempre la voce del singer norvegese Roy Khan (vero e proprio marchio distintivo dei Kamelot, nonché una tra la migliori nell'attuale panorama metallico), oggi più che mai calato in un ruolo d'assoluto rilievo che privilegia l'interpretazione rispetto alla potenza.
Dopo una breve introduzione violinistica ("Solitaire"), l'aria viene subito riscaldata da "Rule the world", rarefatta nell'atmosfera dai toni arabeggianti ma potente come un macigno nella ritmica, e dalla titletrack, abile ed intelligente nel creare un perfetto mix di power (nelle ritmiche), gothic (nell'atmosfera torbida impreziosita da impetuose orchestrazioni) e prog (nel ritornello che quasi ricorda gli Ayreon). "The human stain" rappresenta invece la prima vera e propria innovazione: strutture chitarristiche esemplificate ma roboanti e moderne si trovano improvvisamente a duettare con posseduti rintocchi di pianoforte in un vero e proprio anthem gotico, appoggiate da un'interpretazione dietro al microfono davvero sopra le righe. Tralasciando la sua sezione ritmica praticamente uguale a quella di una qualsiasi canzone degli Epica di "Consign to oblivion" (la stessa Simone Simons ne impreziosisce il chorus), possiamo dire che "Blücher" rappresenta la seconda sorpresa del disco: l'uso del vocoder si rivela davvero efficace nel rivestire d'oscurità e notturno mistero la musica dei Kamelot. Promesse d'amore eterno colmano il candore quasi nipponico di "Love you to death", romantica semi ballad nella quale è il contrasto vocale tra il padrone di casa e l'ospite Amanda Sommerville (Aina) a fare la parte del leone (senza dimenticare il notevole ruolo dell'orchestra e della chitarra solista), mentre "Up through the ashes" è talmente epica e devastante da non lasciare intravedere nemmeno uno spiraglio di luce, da far accapponare la pelle con la propria verve apocalittica.
Canti gregoriani introducono "The morning star", per poi abbandonarla tra le spire di un piacevole episodio orchestrale ancora una volta analogo a quanto proposto dai cugini olandesi Epica (il sodalizio tra le due band sembra ormai diventato di primaria importanza; staremo a vedere cosa saranno in grado di offrirci la splendida Simone e compagni con il nuovo album attualmente previsto per settembre). "Silence of the darkness" è la trasposizione degli episodi più tirati dei due album precedenti in questa nuova veste simil-gothic, dove tutto risulta piuttosto canonico all'infuori della superba partitura di tastiera, mentre "Anthem" è una dolcissima ballata che si guadagna il premio per la migliore canzone del disco, nella quale echeggia una tristezza secolare degnamente racchiusa nelle commoventi linee vocali di Khan e nell'arrangiamento orchestrale-cinematografico di prima classe. A chiudere le danze ci pensa una superba e travolgente "EdenEcho", dotata di una sezione d'archi monumentale, di suadenti passaggi di piano e di un finale con tanto di cori lirici perfettamente incastonati nell'atto conclusivo di un disco dannatamente epico e romantico.
La piccola inflessione nei confronti delle regole del mercato non ha portato la band ad un benché minimo calo fisiologico: sebbene il songwriting sia stato ammorbidito, non sono stato in grado di trovare un solo brano sottotono o un altro poco attraente. Tra particolari evoluzioni, alcuni picchi emotivi e tanti altri bei brani, "Ghost opera" è destinato a rimanere un capitolo solido nella discografia di questa grande band, scrupolosamente professionale, coerente e sempre più in linea con in tempi che corrono senza snaturare completamente il trademark negli anni creato.
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