Il disco in questione è, nella vasta discografia dei Kansas, il più lontano dal loro suono tipico.
E' per via dell'assenza del violino elettrico, abituale punto di riferimento nella loro musica, ma non solo: il produttore del lavoro è il prestigioso Bob Ezrin, una mente maturatasi definitivamente alla scuola Pink Floyd, capace quindi di infondere concettualità, profondità, lirismo, direzione, autorevolezza ed assoluto equilibrio timbrico alla musica sotto la sua responsabilità. "In The Spirit Of Kings" è quindi, grazie soprattutto a lui, l'opera più ambiziosa, meglio prodotta, meglio suonata, meglio cantata della vasta discografia dei Kansas. Non per niente è un concept album, con liriche penetranti, messaggi suggestivi, fascino particolare. Un peccato che abbia fatto un mezzo buco nell'acqua a suo tempo, vendendo pochino. Forse è uscito nel momento sbagliato: fine anni ottanta, di moda l'arena rock di Van Halen e Guns & Roses, ancora da venire il progressive potente e virtuoso di Dream Theater ed epigoni (che ai Kansas devono non poco). E se manca, per la seconda ed ultima volta nella discografia Kansas, il violino (anche il precedente album "Power" era stato realizzato senza il mulinare d'archetto di Robby Steinhard) poco male, perché in questo modo c'è più spazio per le evoluzioni del fuoriclasse Steve Morse, alla sua seconda ed ultima apparizione col gruppo, chitarrista galattico per quante qualità riesce a riassumere, fra le quali non ultima la disarmante duttilità, che lo porta a calarsi perfettamente nei meccanismi della formazione, centellinando opportunamente il suo straripante solismo e assoggettandosi di buon grado ai paletti imposti sia dallo stile intrinseco del gruppo che da quello del produttore, intenzionato a realizzare canzoni compiute ed equilibrate e non già virtuosistiche jam session strumentali.
Il concetto alla base del disco, che è poi la storia di un villaggio fantasma e dei ricordi di chi vi abitava ed ora non c'è più (con il corpo, ma con lo spirito), assume quindi ruolo centrale e costante, irrompendo subito nella pianistica ballata di preludio "Ghosts", grazie al timbro accorato del grande cantante Steve Walsh, ai suoni potenti e riverberati del suo pianoforte che annunciano un disco di musica intensa e toccante. Il brano procede linearmente per quasi sola voce e pianoforte, finché precipita nello sconvolgente assolo di Morse, prima dimostrazione dell'assoluta forza di questo musicista, capace di calarsi perfettamente in atmosfere intense e barocche ed anzi enfatizzarle ancor di più, pur provenendo da esperienze molto più agili e solari (il suo gruppo fusion Dixie Dregs). Il capolavoro del disco si intitola "Rainmaker", un tour de force bestiale per la voce di Walsh, che si sgola a raccontare la vicenda di quest'uomo della pioggia, artefice primario della tragedia toccata a questo villaggio. Steve Morse ci mette poi il carico da undici, con un assolo tesissimo e vibrante che porta la canzone al gran finale, farcito di cori gospel a circondare un Walsh indemoniato. Drammatica ed epica anche la conclusiva "The Bell Of St.James", ma l'opera offre anche passaggi molto più lineari, come l'AOR purissimo di "Stand Beside Me" e l'hard rock di "House On Fire", impreziosito da un botta e risposta da infarto fra i due chitarristi della formazione, il solito mostruoso Morse e l'assai più convenzionale Rich Williams, quest'ultimo comunque distinguibilissimo fra tutti i suoi colleghi non già per suoi particolari meriti strumentistici, bensì per la benda nera da pirata che ricopre il suo occhio destro, offeso in un incidente subito in giovanissima età.
Che altro dire? a mio gusto quest'album è nei cinque preferiti, fra la quindicina uscita sinora a nome Kansas. La sua struttura a concept ed il suo suono ricco, profondo ed equilibrato esortano a rinnovarne l'ascolto, ogni tanto, dall'inizio alla fine, testi alla mano, come è opportuno fare con opere belle concettose e ben suonate come ad esempio "The Wall" dei Floyd (coprodotto da Ezrin) oppure "Metropolis Part Two" dei Dream Theater.
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