Per il decimo album del gruppo di Topeka, in pieni anni ottanta, si decide di cavalcare la faccenda del pop-metal, del class metal, dell'AOR o quello che volete, insomma del rock melodico tosto ma ruffiano che in quegli anni spopolava, nel bene e nel male. I Kansas eseguono con puntiglio, classe e quasi totale rinuncia alle consuete digressioni  progressive, concepite e sviluppate abbondantemente e con alterni esiti (si va dal pezzo bello da far spavento alle suite, o mezze suite, di una magniloquenza e retorica di rara stucchevolezza) nei primi sette lavori di carriera. I legami più evidenti sono allora con i due dischi precedenti, che vedevano il discreto, ma non eccezionale, contributo dei fratelli Elefante: John alla voce e tastiere, Dino a comporre i brani.

Vi sono però tre novità eclatanti e decisive: la più importante è l'assenza, inedita per i Kansas, del violino, strumento che nel rock fa sempre la differenza, così particolare e impattante per quanto è invece scontata e prevedibile la sua presenza nella musica classica. La conseguenza è un'ovvia spersonalizzazione del loro suono, ancora unico magari per estimatori e conoscitori, ma insomma molto più in scia alle forme di rock duro imperanti in quegli anni, quelle elencate ad inizio recensione.

La seconda è il reclutamento di Steve Morse alla chitarra solista, a rimpiazzo del dimissionario fondatore (e principale compositore) Kerry Livgren. Il biondo fuoriclasse della sei corde era da un pezzo che ambiva a dare il suo contributo a qualche grossa realtà dell'hard rock mondiale, per uscire dalla sua dimensione fusion e finalmente collaborare con un grande cantante. Una voglia che si realizzerà in maniera ben più clamorosa successivamente, negli anni novanta, con l'ingresso in pianta stabile nei Deep Purple.

Ma anche coi Kansas l'obiettivo è pienamente raggiunto dall'eclettico chitarrista, grazie alla terza novità e cioè il rientro in formazione dell'insuperato frontman originario del gruppo, l'intenso cantante (e tastierista) Steve Walsh, ancora in gran spolvero (avrà problemi alla gola negli anni novanta e il suo passionale stile interpretativo dovrà fare a quel punto a meno di una certa quota di note alte, pure arrochendosi alquanto).

Il lavoro in questione è percorso da diverse correnti ispirative, risultando in questo modo assai vario e sfaccettato. La principale fonte è ovviamente quella che può essere definita "Kansas meet Dixie Dregs" (quest'ultimo, per chi non lo sapesse, è il quintetto strumentale funky-rock-jazz-country con il quale Steve Morse aveva fatto dischi e concerti fino a quel momento). La collaborazione fra il virtuoso strumentista e il dotato cantante funziona: i tipici temi chitarristici di Morse, intricati e gustosi ma sinceramente freddini e didascalici in ambito Dixie Dregs, acquistano calore e trovano compiutezza una volta complementati dalle animose strofe e relativi accesi ritornelli di Walsh.

Fra i brani che illustrano questo connubio vi è l'iniziale "Silhouettes in Disguise", immediata vetrina per il pirotecnico chitarrista dell'Ohio che spara ventiquattresimi a pennata alternata da infarto qui e là, per poi esplodere un solo finale letteralmente irriproducibile da chicchessia, comunque opportunatamente sfumato dal produttore, per non trasformare quello che è un riuscito pezzo di hard rock in una jam session estetizzante. Altri momenti sullo stesso filone sono "We're Not Alone Anymore", "Musicatto" e "Three Pretenders".

Una diversa ispirazione lega invece alcuni brani che possono essere definiti "Kansas a tutti gli effetti", malgrado l'assenza del violino. Qui Morse se ne sta buono e partecipa in misura meno invasiva, dando i giusti tocchi e consentendo un po' di esposizione anche all'altro chitarrista del gruppo, il molto meno dotato (di talento e di...vista: è guercio) Rick Williams. Le canzoni legate a questo schema sono innanzitutto quella che intitola l'album, un rock melodico ben fatto dalla ritmica molto dinamica e dal ruffianissimo refrain: poi la poderosa "Secret Service" che avanza sincopata a passo di marcia militare e si fa solcare da voglie pompose e cambi di tempo progressive come nella migliore tradizione di questa banda; infine uno dei vertici dell'album (e della produzione Kansas in generale), la conclusiva "Can't Cry Anymore".

Per amare questo brano è necessario possedere il gusto del pomp, del ridondante, del tonitruante, insomma bisogna apprezzare i Kansas nella loro accezione più profonda. Trattasi di una cover di una formazione minore americana, chiamata "The Producers"; Steve Walsh, attizzato come non mai dalla presenza di una poderosa orchestra (registrata nel mitico studio A di Abbey Road), la fa sua con una esibizione ai limiti estremi delle sue possibilità: non ci sono trucchi e non ci sono inganni, voce piena e niente falsetto, una roba da spaccarsi le corde vocali (e in effetti gli succederà, più tardi...) in un paio di passaggi da paura, acuti e di gola piena, da brividi.

A completamento dell'album vi sono poi alcune divagazioni, diciamo così, la più nota delle quali è il singolo "All I Wanted", una smaccatissima faccenda di plagio dei Foreigner e delle loro ballatone avvolgenti alla "I Want To Know What Love Is". Viene addirittura appositamente chiamato l'affermato produttore pop Humberto Gatica per la bisogna, in particolare per la realizzazione del gonfio tappeto di sintetizzatori a coronamento della voce impetuosa e romantica del cantante.

Altra divagazione è l'acustica "Taking In The View", ennesima vetrina per l'eclettico Morse, un luminare pure ad amplificatore spento. Il suo tocco a mani nude sulle sei corde acustiche è superiore, Walsh lo condisce con una bella melodia e la ciliegina è costituita da un coro di bambini nell'inciso, stile "Another Brick in The Wall part II".

"Power" è uno dei più accessibili dischi dei Kansas, in particolare per chi non ama le suite e i tipici sbrodolamenti progressivi. Un bell'esempio di rock ottantiano, prima che il grunge e l'alternative si portassero via il buono (dischi come questo, per dire) e il cattivo (i parrucconi ossigenati, le pose da macho, i fuseaux, gli assoli cretini con miliardi di note al secondo, i cori da stadio banali eccetera eccetera).

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