“Chiudo gli occhi, solo per un attimo …” e la musica ha inizio.
Arie barocche da un passato lontano e pur così attuale.
I Kansas cantano la loro America, con quel loro art rock che racchiude le influenze più varie. Dalla classica al folk, fino a toccare sonorità progressive. Il tutto filtrato attraverso l’anima rock della propria terra. La band rappresenta sicuramente la risposta più convincente al progressive europeo, in un periodo in cui quest’ultimo accusava già i primi segnali di crisi creativa. Sebbene nulla avessero da invidiare ai colleghi d’oltreoceano in termini di tecnica e capacità compositive, quello che li distingue maggiormente è il grande senso della melodia e la continua ricerca di refrain ariosi ed accattivanti. “Two for the Show” è un doppio live che fotografa il gruppo all’apice della propria carriera artistica e contemporaneamente ne sancisce l’inevitabile parabola discendente. E’ questo il loro punto di non ritorno.
Mi lascio sommergere dall’ondata di freschezza della loro musica, in un mare tempestoso di commovente emozione. Le tastiere di Steve Walsh sono poste con decisione al centro di una struttura in bilico tra impeto e romanticismo. Sulla quale si erigono le chitarre dell’eclettico Kerry Livgren (anche alle tastiere) e di Ric Williams, ad alternarsi tra riff possenti ed intrecci funambolici. Le trame raffinate del violino di Robby Steinhardt suggellano il tutto disegnando incantevoli melodie. Le note scorrono, passando dai ricami barocchi dell’anthem “Song for America” alle incursioni hard rock di “Icarus – Borne on Wings of Steel”. Le canzoni dal vivo acquistano maggiore potenza e dinamismo rispetto alle versioni da studio ed il suono risulta più aggressivo.
E’ impossibile non lasciarsi travolgere dalla carica di “Carry on Wayward Son”. La perfetta alchimia tra la voce profonda di Steinhardt e quella più potente di Walsh costituisce un valore aggiunto non da poco. E che dire della splendida e intramontabile ballad “Dust in the Wind”? Una di quelle canzoni per le quali ogni artista venderebbe l’anima per poter scrivere.
I Kansas però non sono solo ottimi musicisti, ma ci regalano anche versi di grande spessore e profondità, che sfiorano il linguaggio poetico. Testi che sanno emozionare sia quando abbracciano con grande sensibilità temi naturalistici ed umanitari, sia quando toccano argomenti più introspettivi. Come nella struggente “The Wall”, che affronta il tema del dubbio e della fragilità umana, mentre chitarra e voce fanno a gara nel regalarci momenti di grande intensità. “Mysteries and Mayhem” e “Magnum Opus” ci fanno capire infine su quali spartiti si siano per anni esercitati gli amati / odiati Dream Theater per dare il la al fenomeno del “progressive metal”.
Il silenzio si rimpossessa della stanza. La quiete dopo la tempesta. Mentre la mente comincia a rielaborare l’ondata di note, immagini ed emozioni. Quel senso di eccitazione che la musica e l’arte in generale ci sanno conferire. La ragione che incontra la passione.
“… Polvere nel vento, tutto ciò che siamo è polvere nel vento”.
Carico i commenti... con calma