Esistono ancora? Dopo il loro cinquecentonovantacinquesimo concerto in Belgio, qui immortalato, il destino della band di Geoff Farina rimane irrisolto. "595" è un live pubblicato nel 2007 ma risalente al 2003, una scaletta felice che ripropone fedelmente gli esiti di una serata speciale. Forse l'addio alle scene di uno dei più sottovalutati gruppi degli ultimi tre lustri, a cui voglio rendere sentito omaggio con questa umile mia. Prima che sbuffiate e storniate gli occhi dallo schermo - irridendo l'ennesima apologia abbozzata da un pasionario in pausa pranzo - lasciate che vi spieghi e vi introduca.
I particolari per me sono sempre stati importanti. Da essi traspare l'appartenenza. In essi si nasconde l'attitudine. E l'estetica dei Karate (laddove per estetica s'intende la forma giacché la sostanza nel rock è ormai materia d'antan antologico) m'ha sempre affascinato: si risolve nell'allure squisitamente understatement dei protagonisti e nel design che avviluppa i supporti, minimale e iperrealista al contempo, monocromi in cui s'erigono di volta in volta palazzi, aerei, automobili, sorta di pop up bidimensionali emblematici di una babele metropolitana intenta ad una sofferta convivenza coatta.
Si risolve nella line up quintessenzialmente rock (chitarra basso batteria) che nel loro caso - caso più unico che raro - risulta indice di una insospettabile ed elegante flessibilità, capace di una proposta musicale in grado di stemperare gli affanni quotidiani cantati da Geoff in ardite metriche jazz e blues, ascoltando "595", si ha come l'impressione che post rock e Lo-Fi siano solo bolle di speculazione letteraria, che il verbo rock si estrinsechi ancora e al suo meglio attraverso i giusti accordi, il contrappunto delle spazzole, i sapienti grappoli di basso, gli assolo al limite del prog.
La voce narrante di Geoff - dal vivo ancor più sofferta che in studio - tradisce nel timbro robusto e sgraziato una sentita angoscia per le sorti dei proprio paese; quando placa l'invettiva, quando lascia sfumare le confessioni per appoggiare gli occhi al legno, è la sua chitarra ad elettrificare il velluto abraso tessuto da Gavin McCarthy e Jeff Goddard, procurando vertigini sensoriali dal profondo dell'immaginario urbano, capace di irretirci con il calore delle valvole e la combustione di una miscela di stili inusitata per efficacia e raffinatezza. Se proprio volete che vi esponga a paralleli, il tiro dei Karate potrebbe ricordare gli Spain meno sedati o, se preferite, i The Sea and Cake disossati; mi rendo però conto che il pur nobile confronto non rende giustizia al sound del trio bostoniano.
Non chiedetemi come tutto questo non possa risultare datato e vetusto. Come possa ancora funzionare. Sono io il primo ad essere sconcertato: conoscere gli ingredienti ma non la ricetta non aiuta, anzi. Forse la loro formula risiede in una schietta urgenza espressiva, corroborata da abilità tecniche mai ostentate, dissimulate da chi ben sa che un concerto, anche il migliore, fors'anche l'ultimo, non è altro che una parentesi elettrica tra le parole "Birth school work death" (...perdonate l'ardito bisticcio tra Cyrano e Godfathers...). O forse è solo che nei Karate ho riconosciuto una valida arma di difesa contro tutte le promesse effimere di tutte le next big things ectoplasmatiche, contro l'assenza di sincerità e desiderio che ci fredda il cuore e ci fa disinamorare della nostra musica.
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