Una doverosa premessa prima di iniziare con la recensione vera e propria: questo disco non contiene ardite sperimentazioni freak/cosmico/post mestruali né funambolici virtuosismi strumentali; non contiene sterili elucubrazioni intellettualistiche fini a se stesse né autoindulgenti pretese di innovazione e/o stravolgimento della musica esistente. Si astengano pure dall'ascoltarlo coloro che cercano il gruppo indie/lo-fi più cool ed anticonformista del momento o i feticisti delle scale pentatoniche e del tecnicismo ad ogni costo. Questo disco si propone di trasporre su pentagramma il male di vivere, l'angoscia esistenziale, quell'impotenza che logora e fiacca la volontà fino a ridurla ad uno sparuto lumicino di autocommiserazione. E ci riesce perfettamente...

Partiti nei primi anni '90 come foschissima band death-doom metal - autrice peraltro del seminale masterpiece "Brave Murder Day", autentica pietra miliare del genere - i Katatonia sono approdati gradualmente, dopo il rilascio di un'interessantissima serie di singoli e mini cd che consiglio a tutti di reperire, a questo immenso "Discouraged Ones", significativo album di transizione tra il vecchio corso della band e quello nuovo, maggiormente improntato verso sonorità ed atmosfere dark wave, pur nel solco del goth metal più introspettivo e desolato. Il nebuloso flusso di coscienza veicolato dal morbosissimo doom degli esordi viene qui parzialmente accantonato in favore di una forma canzone più canonica, ma non per questo più banale.

Il disco si apre con il livore uggioso della trascinante "I Break", forse il pezzo più energico dell'intero lotto. L'inconfondibile voce di renske, una delle più espressive del rock tutto, è un singulto sommesso e straziante, un viscerale inno alla rassegnazione e al nichilistico autoannientamento di sé. Straniante nella nevrotica alienazione metropolitana di "nerve" e nelle raggelanti salmodie della bellissima "Saw You Drown" - forse la miglior canzone mai scritta dai Katatonia - evoca momenti di suggestiva contemplazione nelle stasi crepuscolari di "deadhouse" (altro higlight del disco). "Gone" (poco più di due minuti di durata) esprime - con il peculiare minimalismo chitarristico che è un po' il marchio di fabbrica della band - il lacerante rammarico e la rabbia impotente dinanzi alla perdita di qualcosa che ci è appartenuto fugacemente ma intensamente, per poi svanire per sempre dalla nostra vita. È un universo decadente e malsano, quello dei Katatonia; un affresco urbano di desolata caducità, di sorda indifferenza, di dolente volatilità degli affetti e dei rapporti. Meritevole di menzione anche la soffusa "Instrumental", danza diafana di cangianti fiammelle notturne, e "Last Resort", con il suo incedere funereo ed introspettivo.

In conclusione, un disco da vivere più che da ascoltare, non riducibile ad una mera scala di valori numerici e destinato a suscitare emozioni fortemente contrastanti: indifferenza o adorazione totale, nessuna via di mezzo.

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