Penso di non aver mai aspettato tanto un lunedì in vita mia. Mi sono precipitato fuori casa alla rincorsa del primo treno per Milano, ho pure indossato la cravatta: non poteva essere altrimenti per un appuntamento con Kate Bush. Lo so, devo aver esasperato la maggior parte dei miei amici con il mio conto alla rovescia, iniziato da quando all'inizio di ottobre ho saputo che sarebbe uscito un suo nuovo album, ma lei ha un posto così speciale fra le mie preferenze, fin da quando a cinque anni la vidi al Festivalbar a cantare (rigorosamente in playback) "Wuthering Heights"...

E' stato per me un dovere morale appropriarmi di "50 Words for Snow" il giorno stesso della sua uscita ufficiale, dopo averne ascoltato i brani in anteprima sul sito stesso della cantante. Un appuntamento che mi ha lasciato lì per lì freddo, incapace di dire una parola, di farmi un'impressione. Quei tappeti di pianoforte che sembrano non finire mai, le storie incredibili di fiocchi di neve impauriti che invocano qualcuno che li sappia ritrovare, di cani che in sogno corrono incontro allo spettro della loro padrona, di una notte d'amore con un pupazzo di neve, di uno yeti, di amanti che si rincorrono nel tempo e nello spazio. E poi l'atmosfera soffusa, a volte pericolosamente vicina al silenzio, la voce di Kate che mostra fiera i segni del tempo così come le vere donne vanno fiere delle loro rughe, i giochi linguistici, il finale all'apparenza tanto fragile da darti l'impressione che un nulla lo potrebbe rovinare irrimediabilmente.

Ma ormai non ho più vent'anni, e fra me e queste sette nuove canzoni si è stabilita fin da subito una sintonia sottile ed efficace, poche note che subito mi sono rimaste nei luoghi più impensabili dell'animo, risuonando appena stimolate dal gelo mattutino o dal luccichio di una brinata. Cosciente di essere stato ancora una volta stregato da Kate, comincio a sentire il pressante bisogno di riascoltare l'album ancora, e ancora, e ancora. E mi si apre una bellezza che non avrei mai sperato, che mi soddisfa, che mi abbraccia come il pupazzo di neve di "Misty", terzo brano di questa raccolta, quattordici minuti di meravigliosa narrazione, stesi su ritmiche jazzate ed agili passaggi al pianoforte, improvvisi stacchi di estasi sensuale in cui subentrano suoni impensabili (una chitarra quasi insicura, vetri rotti che sembrano provenire da "Babooshka", veloci interventi orchestrali) ed un crescendo finale che se durasse un solo secondo in più mi costringerebbe ad aprire la finestra ed urlare a pieni polmoni.

E' il brano più bello di Kate Bush? Vale la pena di metterlo fra le possibili risposte. Davanti ai miei occhi si trasforma anche "Snowflake", brano d'apertura che all'inizio mi era sembrato piuttosto piatto, e che invece si rivela uno dei numeri più commoventi di Kate: suo figlio Bertie, incantevole voce bianca, ma anche straordinario narratore (ascoltate come trema quando recita "Now I am falling / Look up, and you'll see me") impersona il fiocco di neve su un fraseggio di pianoforte ripetitivo e quasi lugubre, lei gli risponde, aprendo il tutto in accordi più caldi, insistendo su un ritornello: "The world is too loud, keep falling, I'll find you". Ho la sensazione di essere in piena lettura di un libro (magari le "Sette Storie Gotiche" di Blixen), cosa che mi succede anche per "Lake Tahoe", inizio gelido, gotico, quasi religioso (le contenute voci operistiche, il cantato e il pianoforte che mi ricordano il Florian Fricke di "Hosianna Mantra"), poi l'incedere quasi a ritmo di tango, più avvolgente, più umano. E' incredibile quanto la cantante sia diventata abile a dipingere, con la sua musica ormai libera da qualsiasi urgenza pop e le sue parole attentamente scelte, quadri densi di profondità psicologica e significati.

E' questo che mi fa apprezzare anche un brano che ho visto altrove piuttosto criticato, "Snowed In at Wheeler Street", duetto con sir Elton John. Basta un cenno, un'immagine per richiamare il dramma della Seconda Guerra Mondiale (viene il sospetto che si faccia riferimento anche alla Shoa), o il senso, legato all'undici settembre. di perdita di un mondo. C'è chi ha storto il naso davanti alla performance "imbolsita" di Elton, ma in realtà il brano, con un'intensità che sembra riportare ai tempi di "Hounds of Love" o "The Sensual World", viene reso ancora più efficace dal cercarsi e sovrapporsi di due voci dichiaratamente stanche, cariche di anni, di esperienze, fatica e disillusione. E mi piace anche il lato più spensierato di questo lavoro, "Wild Man", brano che sembra uscito da "Never Forever", carico di mistero e reminescenze orientaleggianti, e la traccia che dà il titolo all'album, che tiene fede a quanto promesso: l'attore Stephen Fry decanta su una base al limite della trance cinquanta sinonimi per la parola neve, incoraggiato nel bel ritornello da Kate ("coraggio, te ne mancano solo ventidue!"), la cui voce per l'occasione riprende le tonalità sbarazzine degli esordi. Il contrasto con "Among Angels" è straordinario, un pezzo per Kate, il suo pianoforte e delicati interventi d'orchestra impegnati a tessere una struggente dedica ad un amico in difficoltà.

Ho così letteralmente rotto il ghiaccio con questo nuovo aspetto di Kate, e l'appuntamento che tanto ho atteso si rivela quanto di più appagante potessi sperare (e mi rendo conto che un passo più deciso in questa direzione me l'aspettavo già da "Aerial"). Godo così della compagnia di questa voce, quella di una donna nel pieno della sua maturità, padrona ormai di tutto il suo processo creativo (sua è anche l'etichetta con cui "50 Words..." viene pubblicato), che si lascia assaporare solo da chi decide di dedicarsi a lei e di aprirle il proprio animo. Ho con me un lavoro destinato a riscaldare tutto questo inverno ormai imminente, affascinante come un fiore che con estrema lentezza, ma ammirevole costanza, si schiude nel bel mezzo della neve.

Mancarmi? Mi sei mancata? Non sai quanto, Kate, e non sai quanto mi faccia piacere ritrovarti in questa nuova veste. 

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