Ogni artista - in costante ricerca di stimoli e della giusta forma con cui esprimere la propria vena creativa - è la figura umana potenzialmente più tormentata che si possa immaginare. Vittima della propria stessa condizione di portavoce dotato ed eccezionale, ipersensibile e spesso eterodiretto, sembra quasi che il suo non facile destino sia quello di essere perennemente in bilico tra poco gloriosi - quando non avvilenti - compromessi con un pubblico non sempre ricettivo al suo più intimo messaggio e il tentativo (sovente vano) di siglare un faustiano patto di eterna qualità e prolificità di produzione. La nevrosi è sempre dietro l'angolo, per il compositore che si è progressivamente scordato quanto di umano, fecondo ed umile ci sia nell'assecondare solamente il naturale sgorgare della propria ispirazione. Suona poco democratico o "politically uncorrect" sostenerlo, ma è anche vero che non tutti gli artisti sono in grado di erigere - a difesa di questi pericolosi assalti contro la loro fragile psiche - il solido muro difensivo di una effettiva poliedricità espressiva o di una qualsivoglia spiccata dote che li renda immuni - anche in tempi di vacche magre per la suddetta ispirazione - da un vero e proprio tracollo.

Sarà la mia immaginazione, ma le corde vocali della principessina Kate restano una formidabile barriera contro le insidie che il tempo sembrava aver riservato anche alla Musa all'altezza del mediocre "The Red Shoes" (1993) - da poco, e finalmente, oscurato nella memoria dal gradevolissimo (per quanto discontinuo) "Aerial" (2005). Nella voce di questa donna, proprio come nei suoi occhioni da cerbiatto, è ancora oggi riconoscibile la fatina perennemente incantata dal mondo che già a sedici anni sussurrava e urlava (con quattro ottave di estensione!) fiabe gotiche quali metafore delle proprie emozioni e paure. E se gli acuti sussurri di quell'ugola avrebbero spezzato anche il cuore più ibernato ("The Man With The Child In His Eyes"…), erotizzato persino brani su temi sociali (l'immensa "Breathing"), edulcorato l'evidente drammaticità di certi testi (la splendida "Army Dreamers"), gli urli sconvolgenti ed irrazionali della nostra l'hanno sempre caratterizzata non tanto come novella strega malefica quanto come voce, contatto diretto e necessariamente spaventoso con la zona più intimamente tribale e primordiale dell'animo umano, quello che Freud definirebbe "inconscio".

I disumani gridi di "Babooshka" (dallo splendido ed eterogeneo "Never For Ever", 1980) o ancora e maggiormente di "Sat In Your Lap" o "Night Of The Swallow" (dal formidabile e difficilissimo "The Dreaming", 1982, assolutamente da riscoprire) sono un vero e proprio faccia a faccia tra Kate e le sue intime debolezze; un faccia a faccia che ritorna puntuale - sebbene in una confezione più pacata, studiata, apparentemente sintetica ma capace di infiammare con duratura intensità - nell'affascinante perfezione di "Hounds Of Love" (1985), uno dei massimi capolavori degli anni Ottanta. Ne è la riprova immediata la disarmante confessione di impotenza di fronte agli assalti dell'amore nella ritmata title-track, che per mezzo della sua semplice metafora sintetizza con rara icasticità l'irruenza e la misteriosità del sentimento. Ancora più sincopata e claustrofobica l'apertura di "Running Up That Hill" (altro singolo di impostazione quasi "dance", in cui una doppia batteria accosta una delle melodie più note e rappresentative della sua scrittura cantautoriale), col significativo sottotitolo "A Deal With God" quasi a suggerire che l'angelica Kate il suo patto lo ha sancito in zone ben poco mefistofeliche. Il vorticoso crescendo corale di "The Big Sky" e la tetra sensualità di quello che vorrebbe essere un semplice omaggio alla figura materna (la bellissima "Mother Stands For Comfort") fanno da apripista ad uno dei più grandi e originali singoli partoriti dal decennio, la strepitosa danza elettro-celtica di "Cloudbusting" (questa volta sulla figura del padre, nel celebre video impersonato da Donald Sutherland). Il treno sintetico di questo grande pezzo ha appena finito il suo fischio che ha inizio "The Ninth Wave", la lunga suite che copre tutta la seconda parte del disco, e che originariamente doveva, ampliata, esserne il fulcro concettuale. Il filo rosso che la lega è quello degli esperimenti etno-pop di Peter Gabriel filtrati attraverso le melodie spaziali e iperprodotte dei Pink Floyd era "The Wall". In un crescendo di sensazioni scandite da tocchi di piano che bruciano note sconsolate sullo sfondo di paesaggi sonori "ambient" al limite dello spettrale (l'introduttiva, delicatissima "And Dream Of Sheep") c'è posto per scampoli di pop etereo e rarefatto di grande classe ("Watching You Without Me"), sinfonie corali - e proprio di un coro gregoriano si tratta - di sicura suggestione ("Hello Earth"), indimenticabili dichiarazioni d'amore alla tradizione celtica (l'enorme "Jig Of Life"), per concludere in leggerezza con la morbida dolcezza melodica della breve e perfetta "The Morning Fog".

Ne vien fuori quel che ne viene fuori.

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