Se esiste la crisi del settimo anno, nei matrimoni, forse non è un caso che anche agli artisti il numero sette porti sfortuna. "The Red Shoes", per l'appunto, è il settimo album di Kate Bush, una che ci aveva viziati per bene con i lavori precedenti. Ma in questo caso, i risultati non sono all'altezza della vaporosa cantante britannica. Non che "Rubberband Girl", primo brano in scaletta, deluda le aspettative: al contrario, si tratta di una perfetta song di apertura, ritmata e accattivante, difficile liberarsene una volta che ti entra nel sangue. Il resto dell'album, però, non seduce. Scarpette rosse, sì, che però non diventano un cult come il film di Powell e Pressburger.

Più che farci vedere il mondo con occhi diversi, come era successo in precedenza, qui la dolce Kate sembra limitarsi a raccontare delle storie che non incidono, che non lasciano il segno in profondità. Prendiamo "Why Should I Love You". Già a partire dal titolo si sente che qualcosa non va: il ritornello è un po' sciocchino, l'organetto un po' noioso, il testo indugia su giochi di parole stucchevoli ("The L of the lips are open/ to the O of the host / the V of the velvet / the E of my eye", e come se l'acrostico non bastasse ecco l'assonanza "The eye in wonder / The eye that sees / The I that loves you").

I contributi di due chitarristi di rango, Eric Clapton nel brano "And So Is Love", e Jeff Beck, non bastano a far spiccare il volo a questo disco. Come non bastano tante altre guest star, né il Trio Bulgarka, le voci bulgare che già avevano collaborato con Kate nel precedente "The Sensual World".

Uscito nel 1993, "The Red Shoes" è un lavoro dignitoso, che si lascia ascoltare, ma che non contiene quel guizzo che ci si aspetterebbe da un'artista di grande talento come Kate Bush. Nonostante la bellezza di 3 milioni di copie vendute nel mondo, traspare un'incombente stanchezza creativa. E infatti un lunghissimo silenzio seguirà il disco, dodici anni di assenza dalla scena musicale che solo "Aerial", nel 2005, sarà chiamato a interrompere.

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