Alice guarda i gatti? Errore, Alice parla ai gatti. Era il tuo numero da star, mettevi su la faccia più triste in repertorio e volteggiavi fino al cortiletto vicino alla fontana. I gatti allora spuntavano come d'incanto. Del resto, oltre al muoverti a passo di danza, avevi felini gli occhi e gattesca la voce, un miagolio che stendeva il genere maschile, compresi noi, poveri sfigati. I gatti, incomparabili e femminei, pur ridotti a comparse, stavano al gioco. Ti sfregavano, ti lisciavano, innamorati quasi quanto noi. E mentre il cuore in gola (e la gola in secca) incollavamo gli occhi alla tua grazia, tu iniziavi la litania delle false tristezze, arricciando il naso se appena una lacrimuccia lo sfiorava. Eri davvero un'attrice consumata per un pubblico che di li a poco avrebbe disperso il seme in masturbazioni leggendarie. Un giorno da una radiolina li vicino partì il successo del momento, cime tempestose, una serie di acutissimi miagolii in chiave pop stregonesca. Canticchiandola in finto inglese ti esibisti nella danza del fantasma coi gatti ai tuoi piedi. Ma era come se avessi smesso di recitare. Improvvisamente non si trattava di essere la gran dama o la piccola squaw piedini scalzi. E il pubblico non aveva più tutta quella importanza. E fu proprio in quel momento che quel pastrocchio dolciastro e senza senso cantato con voce di vetro mi sembrò essere la canzone più bella del mondo. Certo allora non sapevamo che per rendere la follia d'amore bisogna sfiorare il ridicolo e forse addirittura superarlo. Eppure tutto il perturbante che c'è nella canzone ancora oggi mi par di afferrarlo grazie a quel millesimo di magia finito suo malgrado in un pomeriggio d'estate ai giardini pubblici. In fondo anche Kate non aveva che sedici anni, ovvero l'età in cui un grande romanzo lo ficchi, grazie a un immaginario ancora quasi infantile, dentro una palla di vetro colorata. Anche se poi i bambini che giocano a fare i grandi a volte capiscono più dei grandi. Trallallà.

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