Correva l'anno 2007 quando una simpatica e giovane ragazza faceva capolino nel panorama musicale inglese proponendo canzoni di facile presa e impossibili da togliersi dalla testa, ma al contempo raffinate e concepite con cura. Sempre nello stesso anno, l'appena ventenne Kate Nash, lungi dal diventare quella sorta di Crudelia De Mon femminista e incazzata che è tutt'ora, forte dei buoni risultati ottenuti nelle classifiche britanniche, dava alle stampe questo "Made of Bricks", piccola gemma brit-pop che, a distanza di sei anni dalla pubblicazione, rimane uno dei migliori album pop degli ultimi anni.

Certo, è anche vero che, in un panorama mainstream ormai allo scatafascio quale quello odierno, con le varie Britney Spears e Beyoncé a contendersi il dominio delle classifiche, qualcuno potrebbe giustamente dire che emergere dalla massa sia facile, ma "Made of Bricks" è ben più del classico compitino svolto giusto per fare un po' meglio degli altri: è un disco scritto e cantato con il cuore e curato quasi maniacalmente in ogni minimo particolare senza, miracolosamente, risultare iper-prodotto. Ascoltandolo sembra di leggere le pagine del diario di una giovane donna, con tutti gli umori e i colori che vi si possono trovare: musicalmente ciò si traduce in una gran varietà di pezzi e testi, che spaziano da ballate acustiche ("Birds" e "Nicest Thing") a spensierati tormentoni ("Pumpkin Soup", che stranamente ha avuto un discreto successo anche in Italia, e "Shit Song"), passando anche per parentesi più pungenti ("Dickhead"), altre più malinconiche ("Foundations", "Mouthwash") e descrizioni di personaggi più o meno bizzarri (la coppietta con pochi soldi e tanto "ammmore" della già citata "Birds" e la strana ragazzina protagonista di "Mariella"). Il tutto è accomunato da una non indifferente ricerca del suono, che fa sembrare l'album uscito direttamente dai primi anni '80, pur mantenendo una riconoscibile identità indie: esempio lampante di ciò sono i violini della già citata "Dickhead" o ancora la base da karaoke di "Shit Song"; influenze di questo tipo si mescolano poi a volte con quella di Regina Spektor e il risultato sono pezzi come "We Get On" e "Little Red". Non manca però qualche intuizione più personale e quasi sperimentale, come il ritmo sempre più veloce e isterico di "Mariella" o l'arrangiamento cucito intorno al martellante riff di pianoforte di "Mouthwash" e il progressivo "ammucchiarsi" di strumenti uno sull'altro nella breve intro "Play". Il tutto è coronato da testi sempre ben scritti e cantati e interpretati ottimamente da una voce dal timbro originale, molto confidenziale e intimo, nonché dotata di un marcato quanto accattivante accento british. Degni di lode sono anche la produzione, limpida e in grado di far risaltare ogni singolo strumento, e gli arrangiamenti, curati in tutti i pezzi nei minimi dettagli.

Tirando le somme, quello che abbiamo tra le mani è un disco di ottima fattura, forse non perfetto e privo di quel coraggio nel proporre nuove soluzioni musicali che avrebbero potuto renderlo un capolavoro assoluto (perché, per quanto ben fatto, non apporta alcuna vera innovazione al genere musicale cui appartiene), ma che merita certamente di essere ascoltato, se non altro per avere un piacevole sottofondo in questi caldi pomeriggi d'estate.

Nota: il voto sarebbe 4,5. Ne approfitto dunque per chiedere cortesemente allo staff che gestisce il sito di introdurre la possibilità di assegnare anche i mezzi voti. 

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