Due anni dopo l’unanime plauso di critica e pubblico ricevuto dal debutto "Hopes And Fears", torna alla ribalta il terzetto inglese originario dell’East Sussex.
La scelta di rinunciare completamente alle chitarre, almeno fino a questo secondo episodio della loro breve carriera, non ha impedito al gruppo capitanato dal tastierista Tim Rice-Oxley di avere successo. Il tema quasi onirico di un viaggio interiore “sotto un mare di ferro” convince soltanto in parte; per ammissione degli stessi Keane "Under The Iron Sea ha la struttura o, quantomeno, le velleità di un vero e proprio “concept album”, grazie al filo comune che ne attraversa le dodici tracce. Le brillanti composizioni di Rice-Oxley appaiono più sofisticate e in questo secondo lavoro, a differenza del precedente, mancano brani dall’impatto immediato.
Il primo singolo "Is It Any Wonder", nonostante alcuni spiazzanti effetti di chitarra utilizzati da Rice-Oxley, stenta a decollare e quando giunge al termine la sensazione che manchi qualcosa è fortissima. Alcuni dei brani più sostenuti ("Nothing In My Way", "Leaving So Soon" e "Crystal Ball"), pur non aggiungendo nulla alle preziose gemme Pop di "Hopes And Fears", scorrono senza lode né infamia mentre invece, sorprendentemente, sono proprio le ballate romantiche come "Hamburg Song" o la conclusiva "The Frog Prince" a deludere le aspettative. L’incipit della penultima traccia "Broken Toy", in bilico tra Jazz ed Elettronica, riprende fin troppo le atmosfere orientaleggianti di "Pyramid Song" dei Radiohead.
Per quanto possa apparire sgradevole e forse sbrigativo dare giudizi così drastici, "Under The Iron Sea" non sembra andare oltre una risicata sufficienza.
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