Ragazzi: questi mènano. Urca se ménano.
Chiariamo subito ché il palinsesto non prevede il solito inscalfibile, abulico musico-menhir che si reitera e accartoccia su sé medesimo per la durata di tutto il lavoro: corpulento raziocinio, belluina varietà struttural-compositiva, chirurgica ferocia vocale e instrumentale sono gli ingredienti basilari del ritorno, a ben sei anni dal predecessore, degli scardina pentagramma in questione..
Un estenuante atletismo innervato e irrobustito da capziose voluminosità suono-strutturali: ecco, in estrema sintesi, cosa è dato rintracciarsi all’interno delle dodici tortuose porzioni, spesso riccamente strumentali, contenute in quest’ultima fatica del quartetto di Cleveland.
Pare proprio che a differenza di tanta (troppa) concorrenza para/post-metallifera Keelhaul possiedano le idee sufficientemente chiare su come costruire notevoli, avvincenti e diversificati frammenti spaccaossa: baccanali mai fini a sé medesimi per un disco strabordante di soluzioni eseguite apparentemente in totale leggerezza e antitraumatica souplesse.
Nell’impetuoso sciabordio di schegge estroflesse mi par d’uopo citare gli altamente impattanti para-Voivodismi posti in incipit di disarticolata traccia d’apertura, “Pass the Lampshade”, passando per tutta una serie di sperequate, voluminose aggressioni simil-noise rock (a tratti sembrano gli Unsane privi del dono della sintesi e adeguatamente imbottiti di tritolo) e urgenti nequizie assortitamente similari.
Ma io direi anche: UH!
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