Ottobre 1975. La mano di mio padre, guanti di lana bagnata dalla neve sporca.
-C’è da sistemare il garage. Cambiare la cinghia e poi… –
La cura con cui si sfogliano vecchi vinili, come a seguire vecchie abitudini. Gli obblighi familiari, rispettare gli anziani, infine, il premio inatteso e insperato: l’impianto funziona. Tripudio di musica che inizia a girare sul piatto.
Pioneer. Siamo pionieri anche noi, vedo che sorride.
-Attento a dove metti i piedi, aspetta. Ti faccio più luce. -
Poi, un’attenzione speciale nel riporre pile di dischi pesanti più in alto, appoggiare a terra le cassette, riavvolgere il nastro con le matite, tornare all’inizio dell’album, all’inizio della stagione migliore, quella che aspetti da un anno intero, da una vita intera oltre la campanella di scuola.
Torna l’estate. E con loro gli amici bruciati dalle riviere anonime. Qualcuno è ancora in strada, non tornerà mai.
Il condominio è cemento rovente, poco spazio per respirare. Solo una musica insistente sugli archi, l’eco di un Bösendorfer scassato, ma forse non è quello. No, Keith, era un altro disco.
-Qui, semmai, è la collaborazione con il sax di Garbarek che funziona, vedi? È speciale. Teniamolo su tutta la notte, voglio vedere l’alba–
La provincia di Ferrara, il basso impero aveva la sua aurora boreale. Il chiarore nordico di quelle note sembrava quasi uscito da un quadro di mio padre o dalla copertina di Arbour Zena, come Manfred Eicher avrebbe voluto, fosse stato anche lui un qualsiasi funzionario della Banca Commerciale Italiana nel dopolavoro a dipingere freddi paesaggi su toni di azzurro.
Da qualche parte dovrebbe esistere un’edizione speciale di questo disco. Ma in garage ho cercato. Non ho più trovato. Come tante altre cose del senso che passa. Come le architetture di arrangiamenti che sfumano su Mirrors, a non voler disturbare nessuno. Suonavano tutti al minimo. Avrà pensato Jarrett che mia madre dormiva di sopra e non era il caso di toglierle il sonno, ancora. Del resto, ci pensavo già io.
Il ventilatore gira al massimo, poi si spegne. È impolverato nel fotogramma. Sarà lì sul ripiano nascosto da 45 anni, adesso. La mano di neve sempre più vicina al piatto, non lo raggiunge mai, non lo spegne. Una diapositiva, un fermo immagine. Io che guardo la strada, ormai adulto, i toni di azzurro. Come sempre abbozzo qualcosa di intellettuale, tipo:
-Eh già, ha cambiato per sempre il concetto di improvvisazione melodica –
Ma a te in fondo cosa interessa? Tu che dormi qui accanto, mia madre, mio padre chissà dove, dormono pure loro. Tutta la dannata città dorme. Ma perché dormite sempre tutti? Non vedi. Non vedi? Non senti? Ti scuoti per un attimo. La pulsazione di Solara March è irresistibile, mi dai una carezza e ti riaddormenti. Ci risiamo. Forse non la capisci l’improvvisazione modale prestata alla melodia, forse no. Il genio ossessivo di Jarrett. Ma chissene importa. Ti voglio bene sempre, da sempre. Che importa Jarrett? Intanto mi si è fusa l’orchestra al pianoforte e l’ultima puntina che avevo sta facendo la stessa fine. Come molti di noi, avrebbe potuto vivere più a lungo, ma non è mai stato così.
Mi dispiace, questo disco è finito e io non lo so recensire.
Chiedo perdono a tutti del tempo che abbiamo perduto e che non tornerà più.
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