E' inutile che mi lambicchi il cervello: non riuscirò mai a trovare un nesso logico tra jazz e Scandinavia. Però ogni volta che sbircio un libro di storia del jazz ho la conferma puntuale che nell'immediato dopoguerra le città europee più aperte alla più illustre musica nera erano Parigi e... Stoccolma! Non mi resta che prendere il fatto per acquisito, con tutto quello che ne consegue, vale a dire non solo la formazione di un pubblico colto e attento, ma anche e soprattutto una ricca fioritura di validi epigoni dei più grandi jazzisti, la cui fama rimase confinata ai paesi d'origine, con qualche rara eccezione. Un fermento del genere, ancora attivo all'inizio degli anni '70, non poteva lasciare indifferente un musicista colto e positivamente curioso come Keith Jarrett, aperto alla conoscenza dei vari aspetti del jazz, ma anche ad ogni possibilità di contaminazione con altri generi di musica, compresa quella classica. Frenetico come non mai, nel 1974 Keith Jarrett stava realizzando almeno cinque o sei progetti, che andavano dal raffinato ed etnico "Backhand", suonato con il suo "quartetto americano", a "Get Up With It", ultimo disco con Miles Davis. Nel frattempo in qualche angolo della sua mente spaziosa stava prendendo forma l'intuizione geniale che nel gennaio 1975 si sarebbe concretizzata nel leggendario "Koln Concert". Come fece a trovare anche il tempo per fare una capatina in Norvegia non è facile capirlo, ma in compenso si conosce nome e cognome del principale motivo che lo spinse a quelle latitudini: Jan Garbarek.
All'epoca giovanissimo, il sassofonista norvegese aveva già impressionato il grande pianista, che non esitò un istante quando gli fu offerta l'occasione di fare un disco con il suo pupillo. A farlo fu il produttore Manfred Eicher, sinonimo di ECM, che a sua volta è sinonimo di musica di altissima qualità. Con l'apporto di due validi musicisti scandinavi, il contrabbassista Palle Danielsson e il batterista Jon Christensen, ecco creato un "quartetto nordico" per Keith Jarrett, che centra in pieno l'esordio con un disco di gran classe, dal suono perfetto e cristallino, che sembra creato apposta per fregiarsi con onore del marchio ECM. Si intitola "Belonging", e la sua incisione richiede pochissime prove, segno di immediata intesa. Tutto suggerisce armonia ed equilibrio, a cominciare dalla regolare alternanza di tre brillanti pezzi ritmici con tre "ballads" da sogno. Di Jarrett si dà per scontato che è "lui" in tutti i brani, e questo basta e avanza. La vera sorpresa è Jan Garbarek: chi conosce la gelida e lancinante "sirena" (sax soprano) dei suoi capolavori più noti qui troverà invece un sassofonista molto versatile, capace di passare dal caldo e sensuale soffio di "Blossom" allo stridulo e straziante lamento di "Solstice". Fin dalle prime note si profila una netta distinzione tra i due solisti (Jarrett e Garbarek) e i due validi comprimari, anche se uno di questi, Palle Danielsson, offre più di una piacevole sorpresa. A dispetto dell'infausto nome di battesimo, Palle si dimostra tutt'altro che monotono, liberandosi non di rado dal suo compito di accompagnatore per regalarci scoppiettanti uscite del suo contrabbasso. Si parte sparati: "Spiral Dance" come vivacità ha poco da invidiare a certe frenetiche "fusion" dei Weather Report, con Jarrett impegnato a tendere una solida rete di note nervose e metalliche, su cui l'agile sax di Garbarek compie mirabili acrobazie. "Blossom" è una languida "ballad" che rapisce l'orecchio e lo porta dentro una soffice nuvola, dove il sax sussurra una melodia celestiale, il pianoforte semina frammenti di note scintillanti esattamente là dove occorre, e anche il contrabbasso unisce il suo dolce borbottio a questo incanto. "Long As You Know You're Living Yours" è uno schiocco di dita che ci riporta sulla terra, ma ad una realtà densa di festosi ritmi latineggianti, con il sax di Garbarek caldo e sfrenato come la tromba di un'orchestrina messicana. "Belonging" è come un'apparizione, un miracolo, un segno che la perfezione esiste e ogni tanto si manifesta, anche se per poco. Infatti dura solo due minuti, in cui pianoforte e sax duettano amorosamente sulla base di una melodia sublime; basso e batteria tacciono, ossequiosi e (probabilmente) incantati. "The Windup" è un altro trascinante turbinio di note, ma gli assoli dei due "mostri" sono così puliti da spiccare netti sul resto. Si finisce in gloria con "Solstice", che parte come una tenera "ballad" nello stile di "Blossom", ma gradualmente si evolve in una fitta ed elaborata rete di suoni, sempre più intensi e sofferti, e al contempo perfettamente bilanciati: il sax si abbandona a gemiti e singhiozzi, e il pianoforte lo asseconda con raffiche di note sempre più tese e inquiete. "Belonging" ci abbandona lasciandoci in uno stato ambiguo, un misto tra ansia e beatitudine, ma un'esigenza impellente nel frattempo si è fatta strada in questo contrasto di sentimenti, ed è quella di riascoltarlo al più presto.
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